Alla fine degli anni ’90 avevo intorno ai vent’anni: Vincenzo Muccioli e San Patrignano avevano attraversato le cronache dei quotidiani su cui in quel decennio mi ero formato come persona e rappresentavano un riferimento obbligato quando si parlava di “tossicodipendenza”. Fu allora che iniziai a conoscere direttamente il mondo che ruotava intorno al consumo di sostanze: la piazza, la dipendenza, l’aids, le comunità; prima come obiettore di coscienza e poi come educatore.
Anche per questo ho guardato “SanPa” con curiosità e interesse. La serie mi ha colpito e mentre la guardavo ho sentito spesso la necessità di condividere i pensieri che andavano nascendo con amici e colleghi perché credo ci solleciti ben oltre la realtà storica e giudiziaria di Muccioli o il ricordo – per chi li ha vissuti – degli anni terribili che riscostruisce.
Ancora a distanza di giorni, l’urgenza che ho provato guardando SanPa e discutendone con altri riguarda principalmente una delle domande che la serie stessa si pone:
quanto male siamo disposti ad accettare per fare del bene? Come educatori, come operatori sociali, in qualunque contesto ci troviamo ad operare non possiamo fare a meno di confrontarci con questo dubbio e con le sue conseguenze.
E la risposta che ci diamo indirizza il nostro agire. Ma ancora prima di scegliere la direzione del nostro operato è essere aperti alle domande, che conta. Perché ci impongono di interrogarci su quanto è consapevole il nostro intervento educativo, su quanto, del nostro lavoro quotidiano, è mosso dalla volontà di promuovere l’autonomia della persona e quanto dall’egoismo di voler salvare tutti ad ogni costo. Un spazio quello dei dubbi, delle domande e del dialogo che non ho mai avvertito provenire da San Patrignano e che non ho ritrovato neppure nelle parole dei suoi “difensori” in SanPa.
Negli anni le scelte professionali mi hanno portato in contatto con tante comunità, con modelli diversi, ho conosciuto operatori provenienti da contesti profondamente differenti, ma tutti accomunati dalla volontà di accogliere le persone per restituirle al mondo indipendenti – ovvero libere da qualunque dipendenza, consapevoli e capaci delle proprie scelte. La stessa volontà che ho ritrovato negli anni trascorsi a Fontane, la stessa volontà che ho trovato nell’articolo di don Leandro. Io a Fontane ho provato la gioia di
lavorare per la realizzazione del “sogno di indipendenza” di qualcuno.
Una realizzazione che passa per l’accogliere, ma poi anche per il lasciar andare e che è impossibile trovare dove si avverte quella sensazione di chiusura descritta di Mariarosa.
Infine, credo che un altro interrogativo rimanga comunque aperto una volta conclusi i titoli di coda, e che sia rivolto a tutti noi, come cittadini prima ancora che come professionisti del sociale: alla fine degli anni ‘70 l’emergenza era rappresentata dall’eroina, poi dal diffondersi dell’aids e la società provò a farsene carico cercando delle risposte, discutibili come quella di Muccioli, generative e aperte al dialogo come quella di don Leandro. E noi siamo in grado di riconoscere le emergenze di oggi e di provare a cercare delle risposte?
Enrico Battini
[illustrazione: Rembrandt, Autoritratto, 1628 circa]
- don Leandro Rossi, Le tentazioni delle comunità, “Utopia possibile”, numero 36, novembre – dicembre 1994, p. 5 – 6
- Bruno Marchini, SanPa ancora alla ribata, 7 gennaio 2021
- Alessandra Gandelli, Una via non ideologica ma critica, 9 gennaio 2021
- Mariarosa Devecchi, E quella sensazione di chiusura, 12 gennaio 2021
- Marco Sartorelli, Un modello che conosco, quello di Famiglia Nuova, 14 gennaio 2021
- Maurizio Mattioni, SanPa e il lento rimestare della memoria, 17 gennaio 2021
- Gian Michele Maglio, Non chiamiamoci del tutto fuori, 20 gennaio 2021
- Daniela e Carlo Cavalli, Anni intensi, 24 gennaio 2021
- V.C., L’immenso stupore di esserci ancora, 28 gennaio 2021