Giulia Corvi
Quotidianamente, nel mio ondeggiante lavoro educativo, incrocio e attraverso moltissimi volti adolescenti. Volti rivolti talvolta al cielo, talvolta alla terra, talvolta al proprio naso, certe volte alla cerniera delle proprie felpe in cui si incappucciano per sembrare piccoli e invisibili o ancora verso i lacci delle loro scarpe con i quali non si rendono conto di inciampare. Altre volte rivolgo il mio dialogo di sguardi a chi, alzando gli occhi, ricerca la sfida in nome di quell’accanita lotta che lo accompagni a diventare adulto.
Mi imbatto dentro inesperti soldati corazzati che fingono di saper maneggiare spade e armature, ma così goffi e incapaci di intercettare l’Altro, che affrontano adulti che si mostrano draghi, ma che in fondo sanno che sarà uno scontro tra paure. Quelle stesse che poi, fuori dalla polvere della battaglia, occorrerà rimaneggiare e trasformare.
Quella corazza coriacea che, come educatori e operatori sociali, si desidererebbe pugnalare e infrangere subito, ma la cui rottura avviene improvvisamente e non per nostra volontà; assordante e lacerante come tuoni di porte che sbattono, come i pugni supersonici che frantumano pareti, come cellulari le cui comunicazioni vengono volontariamente interrotte da un lancio in lungo il cui fischio continua a riecheggiare; lascia ogni volta attoniti e smarriti.
In quelle crepe interiori e reali ho più volte soggiornato domandandomi quale sentiero percorrere al termine di quell’affannante sosta: ho maledettamente imprecato per l’ennesima anta divelta, per l’ennesimo specchio i cui riflessi sono stati mandati in frantumi, ho obbligato a ripulire, ho punito e rimproverato, ma infine, al termine delle furie, ho finalmente dischiuso il mio sentire all’udire i loro: Cheppalle-che rottura, o qualsiasi loro forma più volgare espressa impulsivamente da tutti questi cavalieri inesistenti.
“Navigo sulle argille di vecchie paure,
da fuori sembro sano,
ma all’interno ogni giorno dentro il mio corpo frano.
I demoni tirano
dal basso, sono tutta creta, neppure una pianta,
un sasso.”
(Franco Arminio, 2021, Cedi la strada agli alberi. Tea, Milano.)
A quelle rotture, oggi, a distanza di tentativi, sbagli e anche buone riuscite, vorrei riconsegnare un significato trasformativo e pedagogico provando a dare qualche interpretazione alla domanda in cui ogni volta mi imbatto: che cosa combiniamo con questi cocci che ritroviamo a terra?
La domanda è molto più concreta di ciò che può apparire.
Di fronte ad una sedia in frantumi, ad un buco nel muro, ad un telefono esploso e sfasciato, come ci comportiamo? Ne gettiamo i pezzi? Li lasciamo a terra? La facciamo ripagare e scontato il debito sarà tutto come prima? Li chiudiamo stretti stretti in un sacco nero e passiamo subito al rimprovero o la punizione? Prendiamo la colla trasparente e li ricomponiamo nascondendo ogni traccia di quei frantumi?
In questo marasma di scelta, vale la pena ritornare sulla parola rompere, sulle sue analogie ed usi. Tra i sinonimi di rompere, il dizionario Treccani suggerisce: decomporre – disgregare, scomporre, smembrare, smontare, spaccare. Se affondiamo le radici nel contesto della matematica si parla spesso di far esplodere un problema, per arrivare alla sua risoluzione, nelle relazioni umane quando qualcuno ha ottenuto un successo lo si incoraggia con un Ehi, hai spaccato! – e ancora – quando si desidera ardentemente uscire dai binari prestabiliti e non scelti, si tenta di rompere gli schemi. Quanta energia, desiderio, sogno, sta racchiuso nella distruzione sognante di un bambino di fronte al suo uovo di cioccolato ripieno di qualsivoglia sorpresa?!
Tutto sembra rimandare ad una sorta di riduzione, alla necessità di disossare, di scovare la parte più piccola dell’intero, al ritrovarne radici, all’essenza, al cuore delle cose stesse.
Dissociarsi dall’idea di ogni rottura come pura distruzione, significa scegliere a nostra volta di spezzare quel legame apparentemente inscindibile dell’adolescente arrabbiato che rompe il mondo per il piacere di distruggerlo e avvicinarsi alla necessità di comprendere i significati dei suoi gesti.
Non sarà forse un grido dall’allarme allo struggente bisogno, talvolta, di comprendere e di conoscere, per riorientarsi? Significa aprire orizzonti di crescita per affrontare al meglio la sfida della complessità. “Guardare la vastità del mondo e la sua inesistenza, la meraviglia, l’irrealtà, la pienezza e la vacuità. Dalla fortuna di essere venuti al mondo e dall’inconveniente di essere nati.” (Colamedici; Gancitano, 2017, p.148).
Il Consigliere Hamann, personaggio della folle genialità di Matrix, diretto da Andy e Larry Wachowski, accompagnando il protagonista Neo tra gli ingranaggi della città di Zaion, ricorda che: “Quasi nessuno viene qua sotto, a meno che, ovvio, non ci sia un problema. La gente ragiona così: a nessuno interessa come funziona una cosa finché funziona. A me questo posto piace e mi piace ricordare che la città riesce a sopravvivere grazie a queste macchine. Queste macchine ci tengono tutti in vita mentre altre macchine vengono a distruggerci. È singolare non trovi? Il potere di dare la vita e il potere di toglierla.” (Matrix Reloaded. 2003).
Nella rottura vi è nascosta allora una discesa al centro della terra, alla sua interiorità, alla sua materialità.
È qui che nasce un sentiero, un margine di riorientamento diverso, di possibilità, di scoperta, o per meglio dire di rivelazione, inteso come l’attimo in cui il velo dell’ignoto cade e si aprono mondi, si apre la ricerca.
Occorre però ripartire dal tangibile, portando fuori dalla paura dello sgretolamento e avvicinarsi al mondo, palpandolo, sfiorandolo o talvolta colpendolo, per imbattersi in esso, per quanto traumatico e disorientante possa essere per chi vi inciampa e per chi conduce. Citando Bertolini: “Provocando il disorientamento che nasce da un brusco cambiamento di contesto (il passaggio dall’ordinario allo straordinario) queste esperienze costringono il ragazzo a diventare consapevole di una nuova possibile prospettiva sul mondo: l’eccezionalità fa sì che improvvisamente e palesemente il mondo appaia diverso. […] Tutto ciò si trasforma in segno tangibile della possibilità di pensare il mondo, se stessi e gli altri in modo nuovo.” (Bertolini, 2015, p. 154).
Si tratta di un lavoro d’artigiano, accurato e preciso, di comprensione su come funzionano gli oggetti che si sono decomposti, su quale nuova vita potrebbero assumere, su come rimaneggiarli. Un lavoro simile a quello dell’orologiaio, che prima di ribaltare o aggiustare il Tempo, ne osserva e maneggia gli ingranaggi, scruta il suo meccanismo interiore per arrivare alla miglior rifinitura possibile.
Così anche noi, in quel paese straordinario e rovente che è l’adolescenza, possiamo farci apriporta di nuovi universi, narrazioni, idee e passioni.
Quanti immaginari e quanta Storia può nascondersi nel tempo condiviso per riaggiustare le ruote di una bicicletta precedentemente distrutta, ripercorrerne i chilometri trascorsi, il sudore e la fretta notturna nelle serate estive per non trasgredire al coprifuoco e le fantasie di strade che nuovamente si potranno scovare a bordo di un oggetto di cui ci si voleva sbarazzare, ma che ora, si fa nuovamente arnese di scoperta; quanta bellezza si cela nel dipingere una porta divelta dalla rabbia, scoprirne i cerchi concentrici di vita del legno, risalire alla sua origine e farne poi un decoro contemporaneo per le pareti di casa, di comunità, di centri educativi. Educare al bello è uno dei compiti più ardui dei nostri tempi, specialmente con coloro che ancora non hanno potuto incontralo. Quanta pazienza e lentezza è necessaria per apprendere ad aggiustare un buco nel muro e riscovarne il numero di strati, di coperture, di emozioni passate, attraversate e non lasciate vuote.
Sbarazzarsi di quel sacco nero pieno di rovine senza alcun tentativo di restauro, equivale a lasciare un’ulteriore voragine di silenzio e vuoto, che risuoneranno come tonfi abissali nel fondo buio di un pozzo.
L’arte giapponese del Kintsugi (letteralmente riparare con l’oro), grandemente diffusa da anni anche in occidente, consiste nel riparare il vasellame rotto impreziosendolo con un collante naturale e dell’oro liquido, ridondando così agli oggetti bellezza estetica esaltandone le crepe. Questa pratica orientale apre una riflessione sull’ideale di perfezione che incombe e permea le esistenze umane e perseguita l’adolescente nelle sue forme più disparate. Il senso di inadeguatezza e impossibilità nel raggiungere un ideale di bellezza e perfezione (fisico, economico, professionale, relazionale) senza sgualciture, alimenta il senso di distruzione perché nulla è mai abbastanza e quell’ideale si allontana sempre più.
“[…] È tutto a posto, anche se ora è rotto, ora tutto è rotto. Come la mia giacca piena di robacce, piena di robacce.
Pure con gli occhi pieni di rimorsi, pieni di rimorsi. Come le tue gambe piene di minacce, piene di minacce. Ed ogni giorno crolla tutto, è una voragine,
come se fossimo tipo bagnatissimi sotto le lacrime E non capisco perché […]”
(Gazzelle, 2022, Qualcosa che non va)
In quelle crepe impreziosite d’oro sta racchiuso il segreto e la memoria della strada percorsa, come parte del sé che restaurandosi o per meglio intenderci, crescendo, ricerca e scopre nuovi gesti per affrontare il suo oscillante equilibrio nel mondo.
“Il significato di una proposta di cambiamento rivolta all’utopico consiste in un invito al soggetto ad intraprendere un cammino all’interno della problematicità dell’esperienza, contraddistinto da una sperimentazione che non conosce fine in quanto è sempre rivolta ad un possibile che “non è ancora” ma che può realizzarsi, con impegno e soprattutto con la consapevolezza che questo percorso esistenziale ha valore a prescindere dall’eventuale raggiungimento degli obiettivi iniziali.” (Tolomelli, 2019, p.63).
L’utopico sta racchiuso allora nella proposta educativa di restaurare insieme i mille pezzi scagliati a terra per comprenderne e riconsegnare loro un senso, che a sua volta sanerà le ferite interiori più profonde, se non nell’immediato, come troppo spesso adultamente si spera, in un futuro, ciascuno con il proprio tempo.
Ci sono orologi i cui ingranaggi talvolta sono più ostici, sottili che richiedono lenti di ingrandimento maggiore per osservarne in profondità le rotture e i possibili sentieri di restauro.
“Scopro la strana meccanica del suo cuore. È un sistema che funziona con un guscio autoprotettivo dovuto alla sua profonda mancanza di fiducia.
Un’assenza di stima in lotta con una determinazione fuori dal comune.
Le scintille che Miss Acacia produce cantando sono le schegge delle sue incrinature, che lei è capace di proiettare sulla scena, ma non appena la musica cessa, perde l’equilibrio.
Non ho ancora trovato l’ingranaggio rotto.
Il codice di accesso al suo cuore cambia ogni notte.
A volte il guscio è duro come una roccia. Nonostante provi mille combinazioni sotto forma di carezze, parole consolatorie, resto sulla porta.
Eppure mi piace tanto far schiudere questo guscio! Sentire quel rumoretto quando apre, vedere la fossetta che si scava all’angolo delle labbra e sembra dire: “Soffia!”
(Mathias Malzieu, 2007, p. La meccanica del cuore. Feltrinelli Editore.)
Vale la pena allora, resta su quelle porte, sospesi a sorprendersi ammirando l’affascinante meccanica dei loro cuori.
[Questo testo è stato pubblicato con il titolo “Cosa fare davanti all’ennesima anta divelta?” in “Animazione sociale” 362, n. 03 2023]