Flavio per “Utopia possibile”, numero 4 – 5, settembre – ottobre 1989, p. 5.
Volontario a Cadilana dal 20 aprile ’88. Ufficialmente in servizio civile dal 3 novembre 1988. Responsabile della comunità – S. Gallo dal 5 marzo…1989, 22 anni il 18 aprile 1989.
Cosa vuol dire essere responsabile di una comunità di tossicodipendenti? Di primo acchito e molto superficialmente, può voler dire evitare che i ragazzi si ubriachino, punirli quando sbagliano, organizzare i lavori.
Per me non è mai stato solo questo e ho sempre inteso la figura del responsabile in maniera più complessa e articolata. Essere responsabile significa soprattutto dare sempre nuovi e validi stimoli ai ragazzi per sorreggerli in questa difficile lotta da vincere contro la “roba” ridar loro fiducia in se stessi; amalgamare il gruppo cercando di evitare il plagio delle singole personalità e le invidie fra gli uni e gli altri; organizzare il tempo libero e tenere alto il morale della “truppa”, ess coerente con quello che dai loro da fare; e ostentare sicurezza perché possa crescere il tuo ascendente quale figura su cui poter fare affidamento in ogni necessità.
Ora, può un ragazzo di 22 anni riuscire da solo in tutto ciò?
Probabilmente c’erano anche le premesse perché le attese non fossero deluse. In effetti a Cadilana mi ero inserito subito e bene, ma la mia posizione era completamente diversa. Là non facevo altro che condividere con i ragazzi la giornata lavorativa e poi parlare con loro dei miei problemi.
Il risultato è stato che loro mi consideravano semplicemente uno di loro, avevano fiducia in me e si confidavano sempre più spesso, in contrasto con la diffidenza e chiusura interiore che lasciavano agli altri. Ma il merito di questo non era dovuto a chissà quali poteri occulti ma al semplice fatto che, anche senza essermi fatto le pere, i miei problemi erano anche i loro, cioè quelli che tutti i giovani si trovano ad affrontare oggi. Totale sfiducia nella nostra società, incapacità di vedere nel futuro, l’angosciante vuoto che ti soffoca da dentro, crisi di identità; non teorie favolistiche in cui la vita è sempre e comunque bella.
NO! La realtà è un rospo amaro e per andare avanti si è costretti a mandare giù.
A Cadilana poi i problemi non li affrontavo mai di prima persona perché potevo appoggiarmi a tutta la esperienza di Leandro, dell’Angioletta, di Gianni, e poi quando ero scoppiato in cinque minuti ero a casa e potevo andare a svagarmi con gli amici.
Quando Leandro mi propose di venire qua a fare il responsabile lo accettai, ma d’altronde la comunità era già stata presa, con tutto il casino che era stato fatto per ottenerla, come potevo rifiutare ben sapendo che ero l’unico candidato a ricoprire tale ruolo?
Anche avanzando perplessità sulle mie reali attitudini in questo nuovo incarico, sembrava quasi che giocassi al falso modesto che vuole sentirsi coprire di elogi. Così partii con tenue entusiasmo per la novità ma anche con l’illusione che fosse tutto più facile.
Abbastanza presto mi resi conto di quali erano i reali problemi che mi si prospettavano, ma d’altronde sei giovane e forte non puoi certo arrenderti alle prime difficoltà. Così calzai la maschera del “sempresorridentesicurodisé” per andare avanti.
Poi arrivano anche i primi fallimenti con i ragazzi con lo shock conseguente che ne deriva. Il colpo è di quelli bassi che mettono al tappeto, ma non si può certo far ricadere le colpe di Uno su tutti, quindi bisogna ancora stringere i denti ed andare avanti per gli altri che restano ed hanno anche essi il diritto di sprecare le loro possibilità. Si, perché una ferrea legge della tossicodipendenza vieta di imparare dagli errori degli altri, col risultato che sono poi in molti a sbattere contro lo stesso muro. E tu non puoi far altro che star li a guardare. Quindi come si diceva per andare avanti, bisogna sempre superare tutti questi ostacoli che si interpongono nel tuo operato e per far ciò devi essere Sempre più forte perché la strada è solo in salita e gli ostacoli aumentano sempre più in difficoltà. E dove la trovi tutta questa forza? Non lo so neanche io. L’unica è di indurirti come una quercia con il rischio poi di perdere ogni umanità e non riconoscerti neanche più. Quando poi in sprazzi di puro egoismo,
quado poi ti permetti di pensare non alla comunità, ma a te stesso, hai quasi orrore di vedere cosa stai diventando, ed il primo impulso è quello di “sballare”.
Proprio tu, che dovresti recuperare loro che lo facevano prima; gli scherzi della vita.
II fatto che poi non lo fai non è dovuto né a maturità né a eroico attaccamento ma solo al fatto che, al punto in cui mi trovo ci vuole molto più coraggio “a bersi il cervello” che non andare avanti.
E cosi (altro scherzo della vita) pur non avendo fatto naja, mi ritrovo a fare il conto alla rovescia.
Dopo tutto quello che ho scritto spero di non essere diventato una vittima da compatire o passare per quello che, sapendo di essere indispensabile (per questo momento) a S. Gallo, si mette a fare i capricci da prima donna.
Questa da parte mia è solo una confessione dei miei problemi, di una parte dei miei stati d’animo e dei miei grossi limiti. Credo che per aiutare gli altri a riconoscere i propri e superarli, dobbiamo prima umilmente ammettere i nostri.
L’utopia è forse possibile, ma paradossalmente solo a condizione di essere noi, il meno utopici possibile.
[immagine: Vilhelm Hammershøi, Interno con Ida che suona il piano, 1910, particolare.]