Ma che bella giornata di festa, per chi lavora. Per chi ha lavorato. Ma non è festa per chi un lavoro non ce l’ha, per chi, pur proponendosi con estenuanti consegne del curriculum, non lo trova. A chi non è capitato di crearsi delle aspettative da qualche colloquio di lavoro, con la percezione che fosse andato bene, anche nella promessa di essere ricontattati a breve, e invece niente, non una chiamata, nemmeno per dire che la scelta era caduta su un altro candidato o un’altra candidata. Oppure noi, o qualcuno che conosciamo, abbiamo perso il lavoro, non per strada o per demerito nostro, e nel proporci per trovarne uno nuovo ci sentiamo o ci fanno sentire vecchi. Dopo esperienze del genere, soprattutto se numerose e continuative, la stima di sé finisce sotto i piedi, mina la propria rappresentazione di persone capaci, magari appena costruita o costata gran parte di una vita: una svalutazione che deve finire prima possibile per evitare che giudizi di inadeguatezza diventino irreparabili. Se si è grandi d’età, e si è senza lavoro, trovarlo può essere un problema: meno freschezza mentale e fisica, formazione e competenze superate da tecnologie moderne, meno elasticità all’apprendimento, troppa esperienza; se si è giovani i limiti invece sono la scarsa esperienza in campo lavorativo, l’inadeguatezza a ruoli di responsabilità e coordinamento e o l’assente praticità manuale. Un disastro.
La reputazione sociale rischia di frantumarsi: disoccupato è un termine “spregiativo”, che colpevolizza un giovane o più ancora un adulto. Come spesso, oltre al danno, le beffe.
Avere un lavoro poi basta a dirsi soddisfatti? Dovrebbe corrispondere alle proprie ambizioni, attitudini, formazioni, specializzazioni; dovrebbe essere non troppo lontano da casa, in un contesto fisico e relazionale bello e piacevolmente stimolante dove crescere professionalmente; dovrebbe essere tutelato da politiche di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro rendendoli più sicuri (il 28 aprile è stata la Giornata internazionale per la sicurezza sul lavoro e, forse, non c’è stata cronaca di incidenti mortali sul luogo del lavoro, ormai plurimi e quotidiani, soltanto perché è stata domenica). Dovrebbe essere remunerato in modo equo rispetto al livello di responsabilità, alla resa (produttiva), alla rischiosità e all’usura; ma equo è generico e non fissa un limite al di sotto del quale non si potrebbe scendere. Le fatiche agli uni, gli agi agli altri, non va bene. Troppi elementi dovrebbero determinare l’equità di uno stipendio e ci si rende conto che alcuni non sono commisurati alla fatica o all’abilità, ma al prestigio del ruolo. Sempre più alti per i dirigenti, sempre con meno potere d’acquisto quelli di operai senza specializzazione, e da lì a scendere. Fino al caporalato, allo sfruttamento, alla semi-schiavitù. Per mangiare, per vivere, per sopravvivere.
Il lavoro, che identifica e in cui ci si identifica, perde di valore e di interesse (non scriverò di personale sanitario ospedaliero e insegnanti aggrediti). La gente, sempre più ingorda di soldi facili acquisiti senza fatica, scivola in sacche di vuoto esistenziale, svendendo il proprio corpo o la propria proprietà o nullità intellettuale in una competizione parossistica e ossessiva del nulla totale, dove conta l’esteriorità, la materialità e regna l’egoismo più sfrenato, la cattiveria.
Un mondo quello del lavoro in grande cambiamento e voglio credere sarà per il meglio. Per gli uomini, per le donne, per l’ambiente, che è di tutte e di tutti, distrutto il quale non c’è lavoro che tenga.
Bruno