Giulia Corvi, Educare all’abitare adolescenti ospiti di comunità, “Animazione sociale – rivista degli operatori sociali”, 352 – numero 02- 2022.
Una settimana in campeggio per diventare artefici del proprio abitare
Testo di Giulia Corvi
Un adolescente ospite di comunità fatica a sentire quelle mura «casa». Così galleggia, nelle sue giornate, in un disperato bisogno di trovare casa, perché anche quella dell’infanzia gli appare lontana e sfumata. Di qui l’idea di proporre una settimana in tenda, dove l’abitare lo si costruisce insieme.
Una vacanza in campeggio con adolescenti ospiti di comunità può rivelarsi un’esperienza in grado di smuoverne l’interiorità. Perché mette in gioco una dimensione centrale, a volte sottovalutata, nei percorsi educativi: la dimensione dell’«abitare», inteso come essere e stare in armonia con un luogo, una sensazione, un corpo, un tempo. Questi ragazzi – le cui parole riecheggeranno nel testo – sono stati costretti a vivere in comunità educativa: non è stata una loro scelta. E questo ha protratto in loro un’idea del vivere al suo interno estremamente negativa, in cui un abitare non è né percepito, né vissuto (1). Galleggiano limbicamente, nelle loro giornate, tra un ciondolante andare e un disperato bisogno di trovare casa, perché anche quella dell’infanzia appare loro lontana e sfumata.
Educare all’abitare
Crediamo occorra educare all’abitare, per non rischiare di dar loro conferma che quelle mura comunitarie possano sgretolarsi facilmente, fratturando ancora volta vissuti già così segnati da fragilità, o, al contrario, soffocarli, senza lasciare quell’apertura necessaria per diventare grandi e aprirsi al mondo. Alfabetizzare all’abitare, come possibilità di conoscersi e riconoscersi, nonostante tutto, tra limiti strutturali e limiti relazionali, in quello spazio spesso buio e sospeso che intercorre tra corpi sconosciuti che dimorano in uno stesso luogo. E quando le parole o l’abitudinarietà non trovano aggancio, ecco che gli educatori possono ricorrere a esperienze di avventura, di snodi. Per «Casa Oceano» (la comunità educativa dove sono educatrice (2)) quest’esperienza è stata la tenda. In questo articolo focalizzerò l’attenzione su cosa voglia dire «abitare» ripercorrendo le tappe, o meglio gli snodi, di una settimana di campeggio sul lago di Garda con gli adolescenti della comunità. All’inizio dei paragrafi centrali riporterò stralci di diario di bordo che ho scarabocchiato a tarda notte, prima di addormentarmi, con lo sguardo rivolto verso le stelle e il rumore della pioggia che cadeva lenta sopra le nostre tende. è stata catartica anche per me la giravolta di snodi: dalla strada alla tenda, dall’avventura al riposo, dalla meraviglia all’altrove.
Il campeggio come esperienza di snodo
Se l’esperienza abitativa del campeggio ha permesso ai ragazzi di uscirne trasformati, è perché ci sono stati «snodi» su cui è importante soffermarsi. Snodo è un termine che arriva dalla meccanica. Il dizionario Garzanti lo definisce «un organo di collegamento costituito da perno sferico di uguale diametro usato per accoppiare due elementi con possibilità di limitata rotazione relativa su un qualunque diametro della superficie sferica». Immergendo il nostro sguardo in una riflessione filosofico-pedagogica, prendiamo in prestito il termine per farne una metafora dell’essere e del fare educativo.
In contesti di estrema fragilità, come a Casa Oceano, gli educatori devono imparare a farsi snodi, più ancora a far sì che la comunità sia essa stessa snodo per le vite dei ragazzi. Farsi snodi significa rimanere presso l’altro senza invaderlo, lasciando quello spazio di vuoto in cui l’io e l’Altro possano esprimersi, accettando che l’altro inciampi, che trovi gli strumenti per rialzarsi, sempre con la certezza di avere accanto la mano di qualcuno alla quale aggrapparsi senza finire nel baratro delle fragilità. Edmond Jabès ha scritto: «Il tuo migliore alleato è colui che a poca distanza da te ascolta nei tuoi passi risuonare i suoi» (2017, p. 49). Offrire spazi di sperimentazione e spaesamento del Sé rimanendo prossimi all’Altro, capaci di innestare capovolte di quotidianità che diventino rigemmazioni del futuro: in questo forse consistono i percorsi educativi. E gli snodi sono i passaggi vitali di questi percorsi, quelli in cui si riparte – ciascuno per il suo cammino, diverso, ambiguo, incerto – con un nuovo orientamento.
L’esperienza del campeggio, vissuta a distanza di un anno dall’emergenza sanitaria, che ha sconquassato i nostri riti e ritmi, è stata esperienza di snodo, sin dal suo inizio, quando ancora era nell’immaginario dei ragazzi e nelle paure di noi educatori, proseguendo tra le trame dei tramonti e dei sogni notturni, fino al suo concludersi tra la stanchezza e il riposo sognante.
La strada del muoversi leggero
“Non oltraggiarli,Non denigrarli!Fidati dei piedi,Sono loro che aprono universi!” (Diario di bordo, 28 luglio)
Primo snodo | Il viaggio verso Sirmione ha inizio in una calda mattinata estiva, tra gli immaginari di tre giorni di pura follia, da parte dei ragazzi, e l’adrenalina di realizzare una vacanza avventurosa, da parte degli educatori. Borsoni, tende, viveri e un ukulele. Lo stretto necessario per un buon viaggio a «bagaglio a mano», come suggerisce Gabriele Romagnoli (2015, p. 72): Impara a vivere come una farfalla. La farfalla non scava tane, non arreda nidi, non ha casa. È libera e leggera. È libera perché è leggera.
Occasioni per condividere pensieri
Non appena avviato il furgone i piccoli rituali prendono avvio. La musica a massimo volume, abitata con lo sguardo perso fuori dal finestrino, lasciando scompigliare sogni e pensieri dal vento fresco e dai raggi caldi delle prime luci mattutine. La sigaretta in bocca e riccioli di fumo che volano via con le melodie che riecheggiano in quella linea bianca sotto le ruote. Rituali di occasioni preziose per condividere pensieri, ricordi di viaggi passati, fragili o entusiasti. C’è chi ricorda vacanze d’infanzia con la famiglia, chi esprime la mancanza di quei momenti, chi ancora preferisce rimanere in silenzio. C’è anche chi non ha paura di parlare delle proprie sofferenze, del prezzo pagato per vivere, magari richiamandosi ai versi di una canzone in cui tutti sono messi in gioco.
Lontani gli amici, lontano dalla mia famiglia
Col sole sulle ciglia non son stato a ripararmi
E il mio amico non ha speso dieci cents per chiamarmi
Amico sai ci penso a quando eravamo insieme
Due bambini per la strada, uno di sabbia uno di neve
Le batoste ci hanno dato due lezioni ben diverse
Uno ha imparato ciò che è giuto, e l’altro ciò che conviene
Non è un male essere diversi
In fondo ci siamo differenziati pure nei versi
Prima di esserci persi
Ricordo quanta merda che ci siamo presi a gratis
Il male ti ha fatto forte, a me m’ha fatto a pezzi.
(Ernia, rapper, 2016; canzone preferita di E., ospite di Casa Oceano)
Alcuni scambiando qualche pensiero dicono qual è la loro canzone preferita, quando la ascoltano e come: con gli amici per i parchi, di corsa o in solitaria tra le pieghe delle lenzuola, a tarda notte quando l’insonnia non lascia riposare.
“Not matter gay straight or bi, lesbien or transgender life. I’m on the right track baby, I was born to survive. No matter black withe o beige, chola or orient made, I’m on the right track baby, I was born to be brave”. (Lady Gaga, 2011; canzone preferita di S., ospite di Casa Oceano)
Inutile portare le proprie bussole
Lo sfrecciare veloce a quattro ruote è lo snodo del desiderio del nuovo. Snodo che apre vie per saper abitare nel flusso del camiamento, che volontariamente lascia a casa (quella passata o attua sociale352le della comunità) pesi, ciascuno con il suo calibro, per avventurarsi leggeri e svuotati in una nuova impresa. Lo dice bene Gabriele Romagnoli:
“Se tutto è diverso a diversa latitudine, diventa inutile portarsi le proprie bussole, i vocabolari, i modi di pensare. Ogni cosa si modifica: anche il tempo, il significato delle parole, perfino quello delle emozioni”. (Romagnoli, 2015, p. 17)
Mentre guido mi sintonizzo con l’atmosfera che i ragazzi hanno generato. Dubbi e un po’ di paura se tutto sia stato organizzato nel miglior modo, se riusciremo a essere all’altezza dell’esperienza, mi sconquassano. Un ragazzo mi risveglia dal torpore mentale riportando la mia attenzione sulla sua meraviglia nel vedere campi incontaminati e profumo di campagna. Riprendo l’attenzione sul mio cammino, c’è ancora così tanta strada da percorrere. Mi è concesso di oscillare e ondeggiare sul mio filo incerto. Sintonizzo i miei passi con quelli dei ragazzi e faccio spazio dentro di me per incontrare l’Altro. Nell’angoscia di non saper più leggere la bussola, ci accorgiamo di non essere soli. I compagni di cammino sono i colleghi, capaci di rimandare a uno sguardo più ampio, di sostenersi in quell’oscillazione funambolica. Ma compagni di viaggio sono anche i ragazzi che ci appaiono lontani ed estranei, ma sanno chiedere di allentare il passo, che con un gesto goffo di scherzo e gioco ti strappano un sorriso quando ti vedono amareggiato e stanco. Viene in mente Lettera a un giovane poeta di Rilke (1908):
“Sii paziente verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e cerca di amare le domande… Non cercare ora le risposte che non possono esserti date poiché non saresti capace di convivere con esse. E il punto è vivere ogni cosa. Vivere le domande ora”.
La tenda dei molti microcosmi
“Scarichiamo l tende e noto che i ragazzi rimangono titubanti e temono che le tende non si montino o siano costruzioni precarie. Cerco di motivarli proponendo di farlo insieme ascoltando della musica. Ok, Giuli, come abbiamo fatto a casa. Tu tira e io picchetto. R., A., datemi una mano». A., non trovando il martello, va alla ricerca di un sasso per picchiettare a terra. I., che ha il braccio immobilizzato a causa della clavicola rotta, fa supervisione lavori, indicando dove bisogna inserire le aste, dove aprire per creare la finestra. E così, picchetto dopo picchetto, le tende prendono forma. C’è un’entrata ovale, delle camere per tre in uno spazio piccolo, un caldo allucinante e sacchi a pelo sparsi ovunque. La creazione finale è soddisfacente e vale la fatica fatta. Di certo… anche le imprecazioni iniziali dei ragazzi e il sorriso finale per la nuova piccola casa”. (Diario di bordo, 28 luglio)
Secondo snodo | Contribuire a far prendere vita a una casa è un’esperienza multisensoriale che coinvolge l’essere e il sentire. Un’esperienza di esplorazione che richiede tempo, per immaginare quanto grande o stretta potrebbe apparire nel risultato finale, quanta fatica bisognerà investire per costruirla, come e dove posizionare i propri oggetti, con chi scegliere di abitarvi e chi potervi invitare.
Un lavoro anzitutto di attenzione
La costruzione dell’abitazione è un lavoro che stimola a un’azione attenta su di sé, sul rapporto con lo spazio abitato, sul corpo che lo abiterà, sull’Altro che lo potrebbe occupare e ospitare. Montare quattro tende insieme ad adolescenti «fragili e spavaldi» si è rivelata un’avventura di esplorazione attraverso i sensi, immersi nella natura e accompagnati dall’oscillare calmo del lago. Si è inserito un linguaggio fatto di gesti, odori, rumori: lo srotolare sull’erba fresca i teli, il sudore del caldo e della fatica, le mani che si cercano per sostenere i pali, il ticchettare del martello sui picchetti, i nodi ruvidi delle corde agganciate per non rendere la casa precaria. Un microcosmo che prende vita. Non è mancata la fatica nell’incoraggiare ciascuno ad accogliere un altro compagno di stanza, diverso da quello al quale erano abituati in una comunità per minori, e una buona armatura è stata necessaria per non lasciarsi spazientire da quei rifiuti e provocazioni. Gli educatori hanno dovuto inserirsi tra le pieghe e le righe di quelle sentenze, scovando paure e stimolandoli a un compromesso che ha portato alla fioritura di alleanze e convivialità nuove. In fondo, per fare dei passi avanti bisogna essere disposti a perdere per un momento l’equilibrio, perché la fine di ogni ricerca porta alla stasi, all’immobilità. Come osserva Andrea Canevaro (2017):
“In questi contesti gli educatori sono acrobati su un filo, teso tra due punti, che è tenuto sia da loro che dalle persone che incontrano ogni giorno”.
nell’imparare molto ha da dire il gioco Scrive Alberto Munari (2008, p. 65):
“Fin da ragazzo sono stato uno sperimentatore (…), curioso di vedere cosa si poteva fare con una cosa, oltre a quello che si fa normalmente. Durante l’infanzia siamo in quello stato che gli orientali definiscono Zen: la conoscenza della realtà che ci circonda avviene istintivamente, mediante le attività che gli adulti chiamano gioco. Tutti i ricettori sensoriali sono aperti per ricevere dati: guardare, toccare, sentire i sapori, il caldo, il freddo, il peso e la leggerezza, il morbido e il duro, il ruvido e il liscio, i colori, le forme, le distanze, la luce, il buio, il suono e il silenzio. (…) Tutto è nuovo, tutto è da imparare e il gioco favorisce la memorizzazione. Poi si diventa adulti, si entra nella «società», uno alla volta si chiudono i ricettori sensoriali. Non impariamo quasi più niente, usiamo solo la ragione e la parola e ci domandiamo: quanto costa? A cosa serve? Quanto mi rende?”
La soddisfazione nel vedere le tende innalzarsi, come immagini che prendono vita piano piano, che hanno il tempo di essere nutrite da ulteriori creazioni immaginative e infine ammirare il risultato finale, ha intensificato il senso del bello, dell’impossibile che diventa possibile, concreto, reale andando a rinsaldare quella fievole e iniziale gruppalità di cui il lavoro svolto insieme per un obiettivo comune ha ravvivato le braci. «Il campeggio è stata esperienza di casa perché stavo lì per condividere del tempo, per svago» (A., ospite di Casa Oceano, 16 anni). Chiarisce questa situazione il pittore Anselm Kiefer (Domus 1047, 2020): «In un attimo, aprendo la porta d’ingresso, ho visto tutto. Non più come divenire, non più legato alla storia, alla mia storia: mi sono trovato in una temporanea osservazione del divenire».
L’avventura, fabbrica di desideri
“Una pagaiata a destra, una a sinistra, destra, sinistra, destra sinistra, ancora, brava, ora raddrizza, due a destra, uno sinistra, uno, due, uno, due. Guarda, Giulia, prendiamo velocità! Dai dai, stiamo andando velocissimo! Al termine del giro, rientrano verso le tende: «Grazie, era tantissimo che non andavo in canoa e provavo tanta adrenalina». Grazie, Giulia, l’ultima volta che sono andato in canoa è stato quando ero piccolo, a casa, prima di entrare in comunità. È stato bello”. (Diario di bordo, 29 luglio)
Terzo snodo | L’infanzia e l’adolescenza sono i periodi dell’esistenza che più richiamano la tensione verso l’avventura. Annotava Alberto Melucci (1992, p. 94): «Gli stimoli di cui i ragazzi hanno più bisogno sono quelli che lasciano qualche crepa, qualche domanda irrisolta, che non sono anticipazione del desiderio, ma fabbricano desiderio.»
Una dilatazione del campo di esperienza
Gli adolescenti sentono il costante bisogno di dilatare il loro campo di esperienza, scontrandosi con se stessi e con gli altri, affrontando dimensioni di gruppo e individuali spinti dal bisogno di conoscersi. Creando un terreno favorevole per sperimentare e sperimentarsi, l’educatore stimola il desiderio di un futuro che riserva qualcosa di eccezionale e straordinario, per non correre il rischio che i ragazzi vivano solo di ottime soddisfazioni, ancorati in un qui e ora, in un presente dal quale non si vede altro che buio. Ancora Melucci (ibidem, p. 95):
“Quando i ragazzi vengono sottoposti a stimoli tanto al di sotto delle loro potenzialità, l’intelligenza non si attiva, ogni cosa diventa uguale all’altra. Non c’è ragione di fare fatica. Motivare alla conquista, guadagnarsi le cose, confrontarsi con il tempo necessario per farle, reggere l’attesa di non avere tutto e subito, sono stimoli che coinvolgono la persona intera. Tra l’ansia e la noia c’è tutta quella regione di esperienze che stanno ai bordi tra le possibilità e il rischio: il cimentarsi, tentare, tener conto del limite, non fermarsi alla prima difficoltà, andare oltre, produrre. È in questa area che è possibile riscoprire lo stupore, il senso della meraviglia, la bellezza delle cose, la sensazione di farle nascere e di sentirsi artefici dell’esperienza”.
Non sempre da parte dei ragazzi è facile accogliere questo invito all’avventura. E come in comunità le porte sbattono furenti di giorno in giorno per urlare al mondo «io esisto», anche al lago sono riecheggiate grida di rifiuto e «no, ve lo scordate». Non vi è nulla di facile nel sentire quei no per un educatore, ma comunque sono risposte necessarie per affrontare vergogne, confronti, paure di inciampare, per lavorare insieme sugli strumenti che aiutano a rimettersi in gioco.
Un varco aperto dal fare il «vuoto»
Il presente che l’avventura permette di vivere guarda al futuro. In effetti, solo imparando a stare in ciò che si vive, quotidianamente, provando passione per ciò che accade, faticando, imprecando o abbracciando la totalità dell’esperienza del presente, si imparerà ad accrescere e custodire il desiderio del futuro. Educare all’avventura significa educare al desiderio. Lo esplicita Paolo Mottana (2011, p. 38).
“I giovani e le giovani hanno bisogno di scatenarsi, di espandersi, di perdersi e di ritrovarsi, di azzuffarsi, ma per conto proprio, fuori dal raggio implacabile dell’osservazione panottica degli adulti; hanno bisogno di sperimentare maggiormente i loro corpi, nella natura, nella strada e poi anche molto spesso nel combattimento, nella lotta, nella sperimentazione del contatto corpo a corpo. Per loro le città non possono solo essere itinerari disciplinati e piste ciclabili. Per loro devono e possono essere perlustrazione e deriva, arrampicamento e imboscamento, massa critica e improvvisa dissipazione.Ecco allora il compito controeducativo: svuotare del troppo pieno, aprire piste, radure, labirinti. Fare della città foresta e della foresta città. Perché vi sia campo aperto e nascondiglio, corsa libera e intimità.”
A Sirmione, i ragazzi si sono avventurati in canoa, spericolati e vivi verso il largo, in pedalò, in tornei di pallavolo con sconosciuti, in immersioni a fondo lago, anche chi in un posto come quello non ci era mai stato e riemergendo con il sorriso ha esclamato «ma è bellissimo!».
“Mi lascio avvolgere dalle radici nomadi dell’acqua che mi cingono i piedi
E mi conducono in quell’ignoto blu.
Deposito sul fondale ciò che il lago custodirà, fino a che Tempo vorrà,
mentre raccolgo pepite di sogni pronti a germogliare. Mi affretto a riemergere,
donando alle onde, piccole bolle di vissuti e ricordi, Grata di questo mio nuovo Respiro”. (Diario di bordo, 30 luglio)
La melodia del riposo dove tutto sedimenta
“Along the Milky Way we run awayIn our carriageEnwrapped in stardust” (The dream, Kujtim Pacaku)
Quarto snodo L’adrenalina dell’avventura implora un dopo, costellato di momenti di riposo, in cui ci si ferma, a pensare a quanto vissuto per lasciar sedimentare quelle pillole d’adrenalina come conserva energetica per il dopo, per trasformare il vissuto in sogno, in desiderio. E così di ritorno alle proprie tende, ai propri microcosmi ci si ritrova seduti insieme a contatto con l’humus della Terra da cui tutto germoglia e basta un ukulele e qualche canzone per ritrovarsi a sognare. «Quanto mi piacerebbe saper suonare anche solo una canzone per ritrovarmi un giorno a fare un falò in spiaggia e cantare tutta la notte» (E., ospite di Casa Oceano). La sorpresa nell’ascoltare gli educatori suonare e cantare, alternando melodie sottili a sgangherate strimpellate giocose, riuniti in una bella condivisone. Dove, se non nei luoghi che chiamiamo casa, si può ritrovare il piacere del riposo, della condivisione, del racconto di desideri? Ecco svelato il quarto snodo abitativo di questo viaggio. Rivivere e far rivivere esperienze di tranquillità, di accoglienza è la spinta per permettere a chi di serenità, forse, ne ha vissuta a sprazzi nell’infanzia e nemmeno si ricorda bene il momento, così che un giorno, magari, ripensando a quegli accordi ancora un po’ stonati si possa ritrovare la melodia di un nuovo riposo. In fondo riposare è un po’ come meditare e meditare è anche medicare, nella sua radice latina. Medicarsi per rigenerarsi.
L’abbandono allo stupore del vivere
“Quando il bambino era bambino era l’epoca di queste domande Perché io sono io, e perché non sei tu? Perché sono qui, e perché non sono lì? Quando è cominciato il tempo, e dove finisce lo spazio? La vita sotto il sole, è forse solo un sogno? Non è solo l’apparenza di un mondo davanti a un mondo, quello che vedo, sento e odoro? C’è veramente il male e gente veramente cattiva? Come può essere che io, che sono io, non c’ero prima di diventare? E che un giorno io, che sono io, non sarò più quello che sono?” (Wim Wenders, film Il cielo sopra Berlino, 1987)
Quinto snodo Lo snodo della meraviglia ha preso vita l’ultima notte, sotto un cielo stellato, a bordo molo. Sdraiati a contemplare l’enormità della luna di quella sera e il tappeto di stelle sopra i nostri occhi, si è generato un fantasticare attento, dubbioso, ammutolito da tanta inafferrabilità e talvolta tratteggiato di paure. Lo snodo della meraviglia è un atto filosofico, è un incontro nuovo e diverso con il mondo, in cui poter coltivare la propria autentica fragilità. Osservano Andrea Colamedici e Maura Gancitano (2020, p. 25):
“Accorgersi di essere qui è un atto di coraggio monumentale, perché significa ammettere di essere sperduti; e per perdersi davvero bisogna sapere di essersi persi. Camminando per strada ti sarà accaduto di fermarti a osservare qualcosa che nessun altro aveva notato: un musicista di strada, uno scorcio, una statua, il cielo. Ecco: il filosofo è colui che si stupisce. Che, cioè, sa star fermo, immobile, attonito – dal latino stupere – mentre gli altri continuano a camminare, senza lasciarsi catturare dal colossale spettacolo dell’essere vivi.”
Sostenere lo snodo della meraviglia non è compito facile per un educatore che sceglie di partecipare a quell’esperienza. Sostenere dubbi esistenziali, sogni utopici e immaginari adolescenziali richiede un lavoro costante e attento prima di tutto su di sé. Perché in fondo quelle domande che tanto assillavano anche i nostri pensieri giovanili ci accompagnano in tutte le strade e le scelte che percorriamo e infiammano ancora le nostre sensibilità e coscienze. Scegliere di restare e porsi in ascolto attivo alimenta l’empatica connessione con il mondo e riflette negli occhi sognanti dei ragazzi che accompagniamo la stessa meraviglia e turbamento che sconquassa anche loro.
“Era sollevante perché sei lì che guardi le stelle e cominci a pensare a cose, pensi ai ricordi «bad» che se ne vanno e sei in un mondo parallelo che fai viaggi. Un’esperienza mistica, fantastica”. (S., ospite di Casa Oceano)
“Immagina che viviamo come fossimo in uno specchio e qualcuno dall’altra parte ci sta guardando, oppure che dall’altra parte c’è qualcuno che ha già vissuto tutto quello che abbiamo vissuto noi!” (E., ospite di Casa Oceano)
L’altrove quotidiano che tutti attende
“Ma cammino ancora per essere libero
Come il vento che scuote il bosco
Come l’acqua che scorre verso il mare
Come la musica di un violino zingaro”. (Olimpio Mauso Cari, artista sinto)
Sesto snodo Come ogni storia e avventura che si rispetti, al termine, i protagonisti devono fare ritorno. Anche per noi è avvenuto lo stesso, ma con uno sguardo nuovo rispetto alla partenza: «Dai Giu, torniamo a casa!» e non: «Dai Giu, dobbiamo tornare in comunità». Forse, implicitamente, con questa frase E. voleva esprimere una nuova sensazione che stava crescendo in lui in quel momento. Fare ritorno alla quotidianità dopo il tuffo a pieni polmoni in un cosmo fatto di costruzioni, giochi, silenzi, condivisione, fatiche è un momento di forte criticità, perché momento di svolta. Svolta perché si subisce una trasformazione, anche se lieve, e la paura di non riuscire a trattenere quel cambiamento è motivo di tensione, ma allo stesso tempo si pone come il solo modo per poter riemergere e affrontare i passi futuri. Quanto afferma Pierangelo Barone (2001) è illuminante: «Comunità e strada assolvono in qualche modo l’istanza metaforica di un processo di formazione che comprende sia il luogo dell’allevamento, della protezione, della cura, quanto il progressivo distacco simbolico che necessariamente deve prodursi affinché la formazione avvenga». La strada di ritorno è quella che porta all’altrove, ciascuno il suo, pieno di speranze o rigetto. E così con un sospiro di stanchezza e serenità ci si butta sul divano con ancora le valigie in mano, stravolti ma con gli sguardi ancora carichi di snodi sognanti.
“C’era una volta un fiore soffione
Lui viveva ogni istante, con grande passione
Dedicava il suo tempo alle cose più belle:
sole, cielo blu e un tetto di stelle;
in ogni emozione cercava gioia infinita
perché sapeva che sarebbe bastato un soffio di vento
per portargli via la vita”. (Pozzi, 2020)
Tra respiro e sospiro
Qui sta racchiuso, per me, il fare educativo e il senso dell’educare all’abitare, inteso come un saper apparecchiare scene educative (la scelta di questo tipo di vacanza, rispetto ad un altro soggiorno), non per rimanerne spettatori, ma desideranti di entrarci e costruire uno stare insieme autentico, faticoso ma generativo. Per spiegare come sia cambiato l’essere e lo stare dei ragazzi all’interno della struttura dopo l’esperienza del campeggio, e quindi il loro dimorarvi, c’è voluto tempo.
Tempo per lasciare sedimentare quell’esperienza fuori dall’ordinario. A poco a poco sono aumentate le richieste di uscite di gruppo, l’esigenza di momenti di condivisione di un vissuto o un racconto e le relazioni tra il dentro e fuori della comunità si sono fatte più frequenti e accoglienti. è così che i pali che prima sorreggevano la tenda si sono a poco a poco trasformati nei compagni di stanza a cui aggrapparsi, nel gruppo dei pari e talvolta nel tempo condiviso con gli educatori. Le tavolate si sono imbandite di amici, di compagni di classe, di amori folli, ciascuno con la sua unicità, accolta responsabilmente e con entusiasmo, come veri ospiti di casa. Segno tangibile del desiderio dei ragazzi di portare un pezzetto del loro fuori nel loro dentro, che con fatica sembrava essere riuscito a risuonare in loro come casa. Infine, anche la tenda del quotidiano poteva sentirsi sorretta con maggior stabilità e leggerezza. Quanto dev’essere sorprendente sentire il proprio respiro trasformarsi in sospiro. Ecco perché offrire spazi di sperimentazione del bello, del difficile, dell’avventura e dedicare tempo per nuove sorprendenti esperienze significa consegnare, a questi ragazzi, desideri e speranze per poter loro stessi divenire artefici del loro abitare, ora e in futuro, in questo mondo, talvolta giungla, talvolta mare o tempesta, talvolta giostra magica o temibile, ma sicuramente un Mondo che, anche per loro, riserva qualcosa di Bello.
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Bibliografia
- Antonacci F., Puer Ludens. Antimanuale per poeti, funamboli e guerrieri, FrancoAngeli, Milano 2012.
- Bachelard G., La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 2006.
- Barba E., La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, il Mulino, Bologna 2004.
- Barone P., Pedagogia della marginalità e della devianza, Guerini, Milano 2011.
- Colamedici A., Gancitano M., Lezioni di meraviglia,Adelphi, Milano 2020.
- Fink E., Oasi del gioco, Raffaello Cortina, Milano 2008.
- Heidegger M., Costruire, abitare, pensare, conferenza a Darmstadt, 1951.
- Huizinga J., Homo ludens, Einaudi, Torino 2002.
- Jabès E., Il libro dell’ospitalità, R.Cortina, Milano 2017.• Kerouac J., Sulla strada, Mondadori, Milano 2003.
- Kundera M., L’insostenibile leggerezza dell’essere, Adelphi, Milano 1984.
- Melucci A., L’età dell’oro, Feltrinelli, Milano 1992.
- Morin E., La fraternità, perché? Resistere alla crudeltà del mondo, AVE, Roma 2020.
- Pietropolli Charmet G., Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi, Feltrinelli. Milano 2009.
- Pozzi G., Le favole di Giulia: per diventare grandi e ritornare piccini, Amazon 2020.
- Rilke R. M., Lettere a un giovane poeta, Mondadori, Milano 2000.
- Romagnoli G., Solo bagaglio a mano, Feltrinelli, Milano 2017.
- Squarcina E., L’ultimo spazio di libertà, Guerini, Milano 2015.
Sitografia
- https://www.domusweb.it/it/opinion/2017/10/26/costruire-abitare-pensare–perch%C3%A9-i-luo-ghi-non-si-dissolvano-in-aria.html • https://www.domusweb.it/it/arte/gallery/2020/06/08/la-casa-di-anselm-kiefer.html
Filmografia
- Wenders W., Il cielo sopra Berlino, 1987.
- Zhao C., Nomadland, 2020.
Note
[1 Avere una casa intesa come oggetto-struttura non significa abitare, se per abitare intendiamo quel processo che chiama in causa l’esperienza quotidiana delle persone, il luogo degli affetti, della crescita, della sperimentazione, il luogo dove trovare riparo. Abitare, per Martin Heidegger (1951), è essere in rapporto con le cose che accadono e che circondano la quotidianità, saperle interpretare, prendersene cura. Per Gaston Bachelard (2002) lo spazio abitato è sempre percepito come una dimensione di sicurezza, sinonimo di intimità protetta, primo spazio vitale: il nostro angolo nel mondo.]
[2 La comunità educativa «Casa Oceano» a Lodi è un servizio promosso dalla cooperativa sociale Famiglia Nuova. Ospita giovani dai 14 ai 21 anni con diverse fragilità: https://www.famiglianuova.com/ ]