Il 27 ottobre è stata organizzata “la caccia alle erbe”
Dovevo andarci con un ragazzo che seguo per lavoro che, inaspettatamente, mi aveva detto che ci sarebbe stato.
All’ultimo minuto, questo sì che me l’aspettavo, non è venuto.
Ma il punto è un altro.
Sono andato per curiosare, perché avevo un po’di tempo.
C’erano lì anche due soldi di cacio, alti mezzo metro, di nome Lucia e Papi.
Lucia è una bimba bionda e bellissima che si accompagnava ad uno zainetto a forma di cane, l’altro è un maschietto, con gli occhi grandi e tanto tenero che te lo mangeresti.
Nel giro di mezzo secondo Lucia si è avvicinata a Papi, che vedeva per la prima volta, lo ha preso per mano e insieme hanno zampettato meravigliati verso i pavoni che giravano per il prato.
Prima botta, che mi ha crepato il cuore.
Le loro gambette di trenta centimetri che viaggiavano all’unisono mi hanno fatto pensare quanto sia facile l’incontro, quando sei alto così e sai poco della vita.
Siamo andati avanti e tra una foglia e un’erba raccolte, loro due hanno continuato ad esplorare.
Fino a che non hanno scoperto un tavolino di cemento. Lì si sono arrampicati e per quella tremenda voglia di volo tipica dei bambini e dei sognatori, che poi sono un po’ in parte le due facce della stessa medaglia, quello è diventato un trampolino sul brivido del meraviglioso ignoto.
Prima uno e poi l’altra si facevano prendere e lasciavano che tu li facessi volare alti.
Lucia, un po’ più timida e di certo più prudente, sì avvicinava al bordo e si lasciava andare sul bordo del precipizio, per poi andare su verso il cielo, con un occhio a mamma Cristiana lì presente, per cercare lo sguardo rassicurante di chi, sola, sa sostenere la tua voglia di andare fin lassù.
Papi, poco alla volta, ha iniziato a partire sempre più da lontano. Il suo lasciarsi prendere diventava un mezzo salto, poi un balzo, poi una rincorsa dal fondo del tavolo.
E in quei piedi che misuravano la distanza, in quelle gambe che caricavano il salto, in quel corpo che sosteneva lo slancio, le braccia protese in avanti, le mani che si aggrappavano forti e i piedi che ti stringevano in un abbraccio assieme alle mani, lo stupore di un gesto incredibile. Totale fiducia in uno sconosciuto come me.
Ho sentito le mani che si stringevano forti, l’abbraccio serrato, l’abbandono. L’ho sentito sulla pelle, è passata nei tendini, nei muscoli, mi ha pervaso le ossa, è circolato nel sangue e da lì al cuore. Spaccato a metà e carico di attimo di pura felicità. “La felicità è quella pienezza che, nel momento in cui la si possiede, se ne è in effetti posseduti”, dice Salvatore Natoli.
L’ultima volta che ho stretto così un bambino avevo vent’anni, lui si chiama Marco, io sapevo poco della vita e lavoravo al bar e la sua mamma me l’aveva piantato nelle mie braccia tremanti e maldestre. Avevo dimenticato questa felicità. Era la stessa. Adesso che qualcosa in più della vita la so, capisco che forse a due anni, a quattro o a venti, conta poco quanto ne sai, ma forse solo che “A capire fino in fondo il mondo ogni giorno ti serve l’altro”.
Grazie a Marco, Lucia, a Papi e ai loro bellissimi genitori, che si sono fidati delle mie braccia, ancora tremanti e maldestre come dieci anni fa, ma pronte ad accogliere la felicità che mi hanno regalato dall’alto della loro inconsapevole saggezza.
Tommaso