Incontro dei ragazzi che mi raccontano di non lavorare, né tanto meno studiare: sono definiti NEET.
Mi sono stupita negli anni delle difficoltà di questi ragazzi a prendere anche solo un pullman, di rispettare gli appuntamenti per un incontro lavorativo, di arrivare a scuola da soli… tutti quei “doveri sociali” che QUALCUNO mi ha insegnato a mantenere e che mi hanno protetto da una quotidianità basata sulla casualità, tentativi che facilmente possono diventare fonte di errore se agiti da un 15enne che ha poca esperienza.
Ecco, ora che tutto è fermo per via dei provvedimenti contro il COVID-19, vivo quelle emozioni che ho spesso ascoltato nei ragazzi NEET, ma che difficilmente vivevo nel quotidiano: paura ad uscire di casa perché chissà cosa potrebbe succedere, desiderio di attivarmi in qualcosa senza avere un’idea precisa, avere voglia di sentirmi importante perché in fondo qualcosa so fare, ma senza la vera possibilità di poter contribuire ad aiutare qualcuno…e di sicuro non ho la sfrontatezza, di quelli che si esibiscono davanti a tutti con la chitarra o di coloro che appaiono in televisione.
E ora attendo… passo intere giornate ad aspettare che un politico mi dica cosa devo fare, il conforto di un amico/a che vive la mia stessa situazione, qualche estraneo che mi dia la sicurezza che tutto andrà bene.
E intanto i giorni passano e io mi ancoro sempre più alle mie piccole certezze quotidiane, ai miei piccoli programmi giornalieri che eseguo con grande diligenza ogni giorno: sveglia prima possibile (ore 11) perché altrimenti questa notte la passo in bianco, mangio qualcosa, porto fuori il cane e aspetto con impazienza la possibilità di parlare con qualcuno, che però è meglio non si avvicini troppo perché chissà dove è stato, cosa ha fatto e quali danni potrebbe procurarmi.
A tratti immagino la vita degli altri, fantastico su come vivono e mi consolo pensando che in fondo solo qualcuno potrebbe stare meglio di me, altri, al momento, stanno anche peggio. Poverini.
Arriva la sera e saluto chi è a casa, sempre che non abbia da lamentarsi di qualcosa che è accaduto nel mondo, peggio quando si lamentano di me. Mi infilo sotto le coperte, guardo qualche serie televisiva, parlo con qualche amico/a sui Social Network e finalmente sono fiduciosa nel potermi addormentare.
Il giorno che più mi fa soffrire è quando qualcuno propone iniziative nuove che non hai proprio voglia di fare, viaggi e scampagnate in montagna, tornei sportivi, formazioni e lavori interessanti che anche se sono molto accattivanti, al momento risultano troppo lontane da casa e dalle tue abitudini. Tutto questo è al momento così improbabile che sorrido e rimando a data da destinarsi.
Poi, un pomeriggio ricevo una chiamata che mi chiede “come sto” senza giudicarmi, che mi apprezza per come sono, che accetta anche il fatto che per giorni ho temporeggiato e non ho lavorato a niente, ma so che di lui/lei posso fidarmi, che mi aspetta per quando sono pronto.
Ma pronto a cosa? Per chi? Quando?
Odio tutte queste domande sul futuro, mi mettono angoscia perché non trovo risposta, spero che qualcuno possa farlo al posto mio, ma di fronte a me ho il vuoto.
Alla domanda: cosa pensi di fare il mese prossimo? la risposta è: “NON LO SO”.
Queste tre parole mi rimangono odiose, danno la sensazione di sentirsi “disarmati”, letteralmente “senza armi”, costringendomi a fermarmi e vivere nell’attesa costante.
Solo ora percepisco davvero il senso di queste parole e le paure annesse che mi colpiscono.
Solo ora, colgo che le vere armi di sopravvivenza non sono le proposte che si fanno, ma le certezze che si trasmettono stando a fianco di qualcuno spaventato.
Solo ora scopro altre possibilità di un intervento educativo e la fiducia che si può dare per incoraggiare un ragazzo a crescere.
Veronica