È una parte del mio lavoro, o meglio, di uno dei progetti ai quali collaboro.
È una parte strana, più che altro perché passo più tempo a spiegare chi io sia, a qualificarmi, e a cercare di far comprendere al personale cosa io ci faccia lì.
Ma andiamo con ordine: succede che i senzatetto, anche se monitorati da un progetto in partnership con tutte le realtà del territorio, durante l’inverno, come tutti del resto, si ammalino, e quando ci si ammala cosa c’è di meglio del mix copertina/divano/Tachipirina/Netflix?
Ecco, gli utenti con i quali lavoro dei quattro elementi qui sopra hanno a malapena il primo, che però non è manco loro, perché è la coperta di un dormitorio, che alle 8 di mattina devono lasciare per tornare in strada, o per andare al centro diurno, che per quanto sia accogliente non ha proprio proprio tutti gli altri tre elementi sopra citati.
Quindi succede che anche una banale influenza non se ne vada con così tanta facilità, se poi la sommiamo ad anni di vita in strada, un fisico minato da qualche eccesso il ricovero ospedaliero diventa una costante.
Succede però che il ricovero si trasformi in lunga degenza, in reparti di ospedali secondari. Ovviamente ciò viene attivato per ristabilire il paziente, certo, ma un cambio così radicale spesso destabilizza gli utenti, che abituati a vivere la loro quotidianità (per quanto deviante) si ritrovano ancora più soli, in un ambiente alieno, dove tutte le loro routine quotidiane non esistono più.
Ed è a questo punto che veniamo allertati, e con i colleghi ci attiviamo per fornire agli utenti in ospedale ciò che abitualmente ti portano i parenti durante un ricovero, ma se vivi in strada e sei solo, beh, avete capito.
Ho cominciato il post parlando del tempo che passo a “qualificarmi” a spiegare chi io sia e altre tarantelle, il tutto perché?
Perché quando a turno con i colleghi arriviamo in reparto la risposta alla domanda “lei è un parente?” non è mai così semplice e scontata…
Prima di concludere dovrei però spiegare il titolo, ovvero cosa io intenda per “l’immagine di Natale”; ecco, se devo pensare ad una scena tenera, ciccia, ma soprattutto sincera, penso alla primissima reazione che gli utenti ricoverati hanno quando ci vedono arrivare in reparto.
Si dimenticano dei vestiti che gli stiamo portando, di quei pochi effetti personali, delle lamette da barba, dei pigiami puliti e delle sigarette, il loro sguardo si illumina, sorridono beati e ti accolgono come un parente o un amico che non vedono da anni, il tutto perché in quel momento realizzano, che anche se solo per una mezz’oretta, non saranno soli.
Perché a volte, basta veramente poco.
Ivan
[Ivan è uno degli educatori di strada nella rete GEA (grave emarginazione adulti) della città di Lodi. Progetto un ponte sulla strada 2, finanziato attraverso un bando di Regione Lombardia, con capofila Famiglia Nuova.]