Caro Ibrahim,
ti scrivo per il motivo opposto a quello per cui di solito si scrive a qualcuno, ti scrivo proprio perché non puoi leggere le mie parole rivolte a te.
La medicina forse dirà perché sei morto, un infarto, chissà: ma io so cosa ti ha ucciso. Ti ha ucciso la disperazione, la tua vita è cessata quando ha capito che quello per cui viveva non esiste, la recita è finita e si è fermato il tuo cuore.
Non sei morto nel tuo paese, dove hanno cercato di linciarti per motivi etnici e religiosi, quelle religioni “universali” che abbiamo portato nel vostro continente, sai quelle che in nome dello stesso Dio grande, provvidenziale, misericordioso fanno scannare fra loro i loro fedeli: ma non erano allora meno cruenti i sacrifici rituali ai vostri piccoli Dei? Eppure da lì sei potuto venir via per cercare altrove una vita vivibile. Non sei morto nel deserto, anche da lì sei riuscito a uscire, non ti ha ucciso la sete e la fame e il sole crudele: ma neppure lì c’era la porta sbarrata, hai rischiato e patito ma ne sei venuto fuori. Non sei morto in Libia, nel paese degli aguzzini, lì ti hanno arrestato, picchiato, torturato, sfruttato, derubato, violentato, ma sei potuto venir via, c’era un via di fuga e hai potuto continuare ad andare in cerca della tua vita migliore. Non ti hanno ucciso le onde del mare, il mare nostrum, la culla della civiltà: sei naufragato, hai bevuto nel buio l’acqua salata, ti sei intirizzito, ma hai toccato terra, la terra promessa. E qui il viaggio è finito. Eri arrivato nel migliore dei mondi possibili. E da qui non si viene via. Qui le porte sono chiuse, non si va né si torna, e non si può neppure stare.
E pensa che hai incontrato, qui, i migliori di noi: persone che ti hanno accolto, riscaldato, nutrito, ti hanno fatto andare a scuola, ti hanno curato quando eri ammalato, ti hanno protetto dalle nostre leggi e dai nostri giudici e ti hanno dato un lavoro finché hanno potuto. Ma in fin dei conti ti hanno dato solo una cuccia e una ciotola, perché noi altro non abbiamo da dare.
Così sei venuto qui a morire di disperazione, perché qui la speranza finisce. L’ho capito quando mi è venuto un pensiero: che la morte per te sia stata una liberazione dalla tua giovane tragica vita.
E sono inorridito a quel mio pensiero: se la liberazione dal dolore è la morte, allora siamo davvero finiti. Se dopo tutti gli sforzi questo è quello che possiamo offrire al più inerme di noi (perché siamo tutti “noi”, noi esseri umani, non ci sono i “voi” e i “loro”) se la concezione finale di liberazione dalla sofferenza è la morte, allora siamo morti anche noi.
Sei morto perché hai assorbito come una spugna la nostra disperazione di civiltà senza via d’uscita, perché la tua speranza si è rivelata essere la nostra disperazione. Anche noi, sai, siamo prigionieri qui dentro, e non possiamo uscire. Certo, noi ci possiamo comprare un altro suv e tu no, anche se le nostre strade sono già ingombre di macchine ferme, noi possiamo comprarci la terza casa al mare o in montagna e tu no, neppure affittare la prima, anche se il nostro territorio smotta sotto il cemento e l’asfalto delle “infrastrutture”, certo noi possiamo andare in crociera su navi mostruose e tu no, anche se poi non sappiamo neppure dire una sola parola nella lingua dei paesi che visitiamo e tutto è solo spettacolo e recita, per affastellare ricordi che già stiamo scordando.
Siamo così disperati, amico, che non facciamo più figli e sai perché? perché non ci sono gli asili nido e non ci danno i pannolini gratis!!!? mentre i morti di fame del mondo i figli li fanno, perché la vita è così che va avanti, non si chiede perché e non fa calcoli guardando il conto in banca. Invece ci preoccupiamo di far vivere noi vecchi fino allo sfinimento: a dieci bambini bastano uno o due nonni, noi abbiamo creato una civiltà dove ogni bambino presto ne avrà dieci!
E abbiamo chiuso le porte, alle spalle e davanti: non perché siamo cattivi, ma perché non sappiamo che fare. È di noi stessi che abbiamo paura e il motivo lo abbiamo. Questa miseria è tutto ciò che in secoli di civiltà superiore siamo riusciti a escogitare. Abbiamo immaginato una civiltà a somiglianza della parte più misera di quello che siamo, l’abbiamo chiamata ricchezza e ci siamo chiusi qua dentro, mentre le cicogne vanno e vengono liberamente, non accumulano in granai e fanno il nido dove il sole le invita.
Mi dicevi che per te ero come un padre e ti fidavi di me. É finita così.
Giuseppe Forzani