È quell’ora del tardo pomeriggio in cui il sole se n’è già andato e il fresco umido della sera comincia a bagnare i marciapiedi. Entro, quasi per caso, nella grande chiesa di San Cristoforo. Passeggio lenta tra i banchetti delle Associazioni in cerca di qualche idea. Un bel presepe, alto, colorato, curiosamente nascosto in un angolo, attira la mia attenzione.
“Scusi, quanto costa quello?” chiedo ad un signore di mezza età, seduto su uno sgabello minuscolo.
Lui mi guarda e sorride: “Non ha prezzo, non lo vendiamo. Vede che non c’è il Bambino? E’ arrivato così dal Perù. Difettoso, mancante del suo pezzo più importante. Come si fa a vendere un presepe senza Gesù? Lo abbiamo tirato fuori solo perché dà un po’ di colore. Ma non lo comprerà nessuno”.
Rimango interdetta. Nemmeno mi ero accorta che mancasse l’ospite d’onore della festa, il protagonista.
Chissà perché, mi viene subito in mente don Angelo. A lui sarebbe piaciuta tanto questa storia, ci avrebbe trovato dentro mille significati. Così resto lì e provo a farlo io. A trovare un significato, dico. Non è difficile. Una famiglia che parte da lontano e arriva a metà. Ma certo. Gesù non c’è perché ha scelto di restare con i bambini annegati nei viaggi della disperazione.
Gesù non c’è perché è rimasto sotto le bombe in Siria. Eppure Maria è lì immobile. Rimane china, l’espressione dolce, a fissare uno spazio vuoto. Pare sussurrare “Non andartene. Non andartene Speranza, non andartene Pazienza. Rimani. L’attesa di chi resta aperto al Bene non è mai vana”.
“Lo compro io. Lo voglio io questo presepe a metà” dico. Tiro fuori il portafogli, mentre il signore dello sgabellino ride e mi dice “Faccia lei il prezzo, non c’è problema”. Arriva la moglie, mi incarta le statuine con una delicatezza e un’attenzione che mi commuovono. Questo presepe ha davvero qualcosa di speciale. Noto che alcune statue sono scheggiate, forse logorate dalla troppa attesa. Sì, è proprio il dono che stavo cercando. Un oggetto che ne ha passate tante, ma che ha ancora molto da dire e da dare. Helder Camara, riferendosi ai bambini lavoratori nei campi di Recife, diceva che certe creature, come la canna da zucchero, anche messe nella macina, completamente schiacciate, ridotte in poltiglia, sanno dare soltanto dolcezza. Capisco ora quanto avesse ragione.
Mi viene in mente la Messa di venerdì in Duomo, con i bambini e i ragazzi delle scuole diocesane e del collegio vescovile. Le vocine che provano i canti, il senso di pace, il tono furtivo di Niccolò – terza superiore – impenitente casinaro fannullone che si avvicina al Rettore, prima della funzione, per chiedergli sottovoce: “Don, mi confesserebbe?”
Mi sento addosso la gioia della festa dei bambini, alla scuola materna. Noi genitori che entriamo e siamo più emozionati dei nostri figli. Io che noto subito i ciuccini di Bianca che svettano tra le teste della classe gialla: questa mattina glieli ha fatti Chiara (la baby sitter), perché io avevo la prima ora a scuola e sono uscita presto. Chiara fa i ciuccini molto meglio di me. Dovrò imparare. E poi comincia il grande gioco, entra Galileo in persona, ci chiede di costruire un cielo stellato pulito, senza inquinamento. Tutti all’opera. Basta pochissimo, in fondo, per divertirsi insieme ed essere felici. Infine si canta, si balla, si ride.
Grazie, Gesù. Il tempo non si può fermare e questi momenti non torneranno più. Ma intanto li vivo e posso custodirli nello spazio più profondo di me.
Domani inizierà la corsa agli ultimi regali. Ma non avrà più nulla a che fare col Natale. Il Natale, nel mio cuore, è arrivato in anticipo. Con una statuetta che manca in un presepe e mi dice “Sono io. Nei volti delle tue figlie, negli occhi dei ragazzi che ti sono affidati ogni giorno, nei bambini del tg che ti fanno commuovere e disperare. Sono io”.
Chiara