Marco Sartorelli per “Utopia possibile”, numero speciale – 30 anni, maggio 2012, p. 27.
In occasione del trentennale di Famiglia nuova e stato organizzato un torneo di calcio. Prima classificata la squadra della comunità Papa Giovanni XXIII. Ma che bravi giocatori, ma che atleti. Be’ nulla di tutto ciò. Sotto il profilo del gioco altre squadre sarebbero state più meritevoli, forse. Ma allora si è trattato di fortuna? Non credo, anche se un pizzico non l’abbiamo rifiutato. Credo che una chiave di lettura possa essere come sin dall’inizio abbiamo interpretato il torneo in chiave pedagogica.
L’obiettivo finale alzare la coppa del vincitore rappresentava metaforicamente l’obiettivo del nostro essere in comunità.
Ogni partita che si disputava per analogia era una tappa del nostro percorso comunitario.
Siamo partiti sin dall’inizio alla grande: chiunque è in comunità, fa la comunità, si prefigge un compito immane: bisogna crederci, bisogna essere anche un po’ smargiassi, altrimenti se stessimo soltanto al passato ed al presente rimarremmo annichiliti dalle paure, dai fallimenti. 0gni utopia ha una connotazione di tronfia esibizione, strada facendo si recupera l’umiltà della fatica, dell’impegno, del credere in un progetto. Siamo partiti cosi: vinceremo noi, quelli di Arcello.
Bene, prima partita sonora sconfitta. Poi è stato un succedersi di eventi: infortuni, infantilismi, qualche durezza di gioco, ma comunque sempre un qualcosa in più ed in meglio. 0gni rovescio non ci abbatteva, bensì ci dava la forza per reagire, per crescere. “Cuore e cervello” è stato il nostro slogan, abbiamo cercato di tradurlo in azioni concrete. Non abbiamo fatto grandi allenamenti, abbiamo seguito una strategia che si costruiva giorno per giorno: ogni partita era un pezzo del nostro percorso, della nostra vita e ce la siamo giocata. Potrei enumerare mille episodi che hanno caratterizzato il nostro torneo e che caratterizzano il nostro vivere in comunità. Mi piace ricordarne due: in campo eravamo bolsi, si annaspava, qualcuno aveva bisogno di un cambio; il nostro mister decideva di far entrare Gianluca. Esce uno ed entra lui… con la sigaretta in bocca. Ululato! di tutti noi e la sigaretta sparisce. Due secondi dopo segna un goal, bellissimo tra l’altro. Ci siamo guardati, abbiamo riso: eh si, siamo proprio noi. Scalcinati atleti, poco igienisti, ma rincorrevamo il goal e l’abbiamo insaccato.
Altro episodio: da bordo campo urlavamo critiche ai nostri: poco fiato, qualche scorrettezza, mente annebbiata, troppo individualismo. E più urlavamo contro e peggio si andava. Si è cambiata strategia addosso all’arbitro. Lui era il nostro capro espiatorio. Come in comunità: tutto va male sempre colpa di qualcun altro, colpa di chi? Ma dell’operatore, se non fa lui da parafulmine chi lo fa, è il suo lavoro. A lui poi dare rimandi adeguati, ricompattare le fila, supportare ed aiutare nelle analisi, nella scelta delle decisioni. E cosi è stato per il nostro arbitro-operatore, non si è scomposto un po’ perplesso lo sarà stato, ma con decisione, con lealtà ha mantenuto le regole del gioco. Tutti son rientrati nei ranghi, ricominciato il bel gioco. Abbiamo vinto. Il nostro giocatore in più in campo, in questo caso, è stata la professionalità di Massimo. Grazie a lui e grazie a noi che abbiamo saputo usare lo strumento giusto nel momento giusto nel momento del bisogno.