Leandro Rossi per “Rocca – periodico quindicinale della Pro Civitate Christiana Assisi”, numero 20, 15 ottobre 1998, p. 27.
Su “Il cittadino” di Lodi del 6 agosto Giorgio Baratto scriveva un articolo dal titolo “I clandestini non pagano le tasse”. Scriveva da “comune cittadino”. Io pure sono un comune cittadino che gradirebbe rispondergli. Esordisce dicendo: “Alcuni sostengono che l’immigrazione arricchisca; e che gli immigrati fanno lavori che gli italiani non vogliono fare. Sarà vero, ma i figli degli immigrati tenderanno a migliorarsi e rifiuteranno i lavori accettati dai genitori e allora cosa faremo? Li obbligheremo a fare i lavori dei genitori o chiameremo altri immigrati?”. Cominciamo a risolvere i problemi di non poca cosa. In una società dovrebbero progredire i “meritevoli e capaci”, se non vogliamo far rinascere i servi della gleba. Del resto, non è disonorevole nessun lavoro; è solo sbagliata la grossa disparità di retribuzione.
L’autore dell’articolo poi si rammarica perché gli immigrati (non i clandestini come erroneamente li chiama lui) mandano nei rispettivi alle loro famiglie circa 1.000 miliardi l’anno. E fa tutto un discorso che in un film di Totò riassume con una parola (detta con i pollici sotto le ascelle e con il torace gonfiato): “Io pago!”. All’orgoglio capitalistico egli poi aggiunge il disprezzo per i poveracci clandestini, che invece non pagano niente: né per l’ordine pubblico, né per i servizi sanitari, né per quelli sociali (dove sono?). Rispondo: l’immigrato che ha accoglienza e lavoro non è clandestino e paga come tutti noi. Se lo stipendio lo divide con la famiglia rimasta al suo paese: cosa fa di diverso di ciò che hanno sempre fatto giustamente anche i nostri emigrati all’estero? Se non può farlo perché viene lasciato “in nero” da padroni sfruttatori sono questi da biasimare e da perseguire, non si deve punire chi ha sopportato il male e le beffe! O volete che paghino le tasse prima di avere il lavoro, il cibo, la casa, tutte le cose indispensabili a vivere, insomma? Che fiscalismo aberrante sarebbe mai questo?! E perché non fare così anche con i nostri disoccupati: lasciarli morire di fame e poi condannarli anche perché non hanno pagato le tasse? Ci sono sì i “birboni” che mangiano, bevono e che si sono arricchiti con le tasse non pagate o con le tangenti astronomiche estorte; che rivendicano il diritto di non essere giudicati dalla Magistratura, perché loro non sono come gli “altri”: quei poveracci là in fondo, ladri di polli confessi e contriti. Loro sono quelli che mandano in malora noi poveri italiani (o Padani).
È strano il modo di ragionare. Ci sentiamo derubati non dal ricco epulone e scialacquone: ma dal povero che ha niente e che diventa ogni giorno sempre più povero. Ma poi un motivo c’è, direbbe Paulo Freire, Profeta di liberazione. Invece di solidarizzare con gli oppressi (che rappresentano la nostra categoria), solidarizziamo con gli oppressori che invidiamo e nei quali ci rispecchiamo! In realtà il povero (che ricerca la giustizia e pratica come può la solidarietà) non ha niente da invidiare al ricco. Mentre questi ha da invidiare al povero giustizia, solidarietà, pazienza, nonviolenza e mille altre virtù. Allora il ragionamento che sembrava non avere un senso, il senso lo acquista. Non posso condannare l’oppressore, quando lo voglio imitare! Vien fuori la logica dell’egoismo e del perbenismo.
Il discorso non regge neppure per il “comune cittadino” che utilizza la ragione. E per il “comune cristiano” che ha il supporto della fede? Che ha lo Spirito come “nuova legge”? Che ha Dio che gli parla nel cuore? Che sarà esaminato alla fine sulla carità al fratello? Voglio vedere come se la cava. “Ma noi siamo bravi cristiani, che fanno l’interesse della Chiesa”. Sono moderati e di centro (perché hanno paura che le cose cambino secondo giustizia), alleati di “persone a modo” riconosciute come tali dall’alta società… Ma il Signore ci risponderà: “Non vi conosco”! Ci crediamo? O andiamo in Chiesa per buttare un po’ di fumo negli occhi agli altri e alzare la nostra “reputazione”? Quando in questi giorni la televisione ci presenta i nostri fratelli dei paesi poveri, che hanno perso tutto (e alcuni, scaricati in mare, anche la vita) affamati, assonnati, detenuti per aver commesso il reato di venire da noi a cercare pane e speranza, cosa pensiamo anzitutto? “Poveretti! e se fossi io nei loro panni?”. Oppure: “mandateli via e basta, si arrangino?”. La scelta dei poveri (per la giustizia) la devo fare come “comune cittadino” prima che come cristiano. Cosa guadagno? Non mi interessa. Ma se proprio lo volete sapere: “La pietra scartata è divenuta pietra angolare». Il che vuole dire la vera speranza di un mondo umano ce la portano loro.
[immagine: William Johnson, Monte Calvario, 1943.]