Leandro Rossi per “Rocca – periodico quindicinale della Pro Civitate Christiana Assisi”, numero 11, 1° giugno 1998, p. 51.
In un solo giorno (l’8/5/98) trovo sui giornali la cronaca di ben tre suicidi diversi, almeno perché legittimati da chi li ha compiuti. Il primo e più sorprendente è quello del vescovo pakistano Joseph John. Il religioso difendeva i diritti umani delle minoranze; protestava contro la condanna a morte di un cattolico per una bestemmia antiislamica. Si è sparato nel tribunale per dare peso alla sua protesta, convinto non solo di fare bene, ma che il suo gesto era necessario per raggiungere il fine che desiderava. Il secondo caso è quello avvenuto in Vaticano. Cedric Tornay delle Guardie Svizzere ammazza il comandante Esterman e la moglie e poi si toglie la vita. La lettera che aveva scritta diceva: «Troppe ingiustizie, mi hanno costretto. Ho dovuto dare la mia vita per il Papa». Qui ci sono anche due omicidi; ma c’è pure il suicidio legittimato. Pazzo o incosciente, quella era al momento la sua coscienza. Il terzo caso è quello di Donato Bilancia, il serial killer incriminato degli omicidi di donne in Liguria sui treni e altrove. Egli pure dice: «Uccidere era per me una missione». Qui siamo allo squilibrio più grande oppure alla delinquenza assurda. Non c’è il suicidio, ma c’è la legittimazione dell’omicidio ripetuto, il che è anche peggio. Fermiamoci qui, perché potremmo ampliare la problematica includendo anche il «suicidio assistito» legittimato nell’Oregon, che in realtà è un chiaro caso di eutanasia. Questo avremo ancora occasione altre volte di esaminarlo.
Il punto essenziale, allora, resta se ci può essere un motivo sufficiente per ammazzare, o meglio per ammazzarsi, perché il suicidio non contiene l’ingiustizia dell’omicidio. Tradizionalmente si era inclini a considerare il suicida fortemente responsabile, anche per motivo di deterrenza e per la preoccupazione di salvare spiritualmente l’individuo. Oggi la tendenza si è capovolta; non solo perché la chiesa è più disposta a benedirne la salma, ma per le conquiste della psicologia e della psichiatria, per cui quasi nessun suicida viene considerato responsabile.
Alla luce della storia il problema si complica. Non c’è solo il suicidio del disperato. Ci sono alcuni (come il vescovo pakistano) che si determinano ad uccidersi proprio perché sperano con il loro gesto di beneficare gli altri. Il suicidio allora non diverrebbe una diserzione dagli obblighi morali e sociali; ma esattamente il contrario. Non ha detto Gesù: «Non c’è amore più grande di chi dà la vita peri fratelli»? Non ci interessa il gesto fanatico o folle, ma quello libero ed eroico di chi spera di ottenere qualcosa di buono per il mondo. Non è solo di protesta, ma di oblatività e di martirio.
S. Ambrogio, nel suo trattato sulla verginità, racconta di una vergine quindicenne, S. Pelagia di Antiochia, che, per non cedere alle previste insidie alla fede e all’onestà, decide di farsi travolgere dai flutti (noi potremmo dire oggi: per evitare lo stupro, una si butta dal treno). S. Agostino, in La città di Dio, si domanda come è possibile condannare simili vergini, se fecero ciò non per inganno umano, ma per divino comando e in forza dell’ubbidienza (come Sansone). S. Tommaso conferma che non ci si può uccidere, se non per comando di Spirito Santo (2,2ae, 64, 5, ad 4: «Nisi ex istintu Spiritus Sancti»). D’altra parte dice anche che la «nuova legge» del cristiano e la «Grazia dello Spirito Santo» scritta nel cuore.
Dietrich Bonhoeffer, il martire del nazismo, fa diverse considerazioni interessanti nella sua Etica. Dice ad es.: «per l’uomo, a differenza degli animali, la vita non è un destino a cui non ci si possa sottrarre: egli è libero di accettarla o di togliersela. Il suicidio è un atto specificamente umano giustificato da uomini di alta levatura morale non è sempre espressione di debolezza e di codardia. Se nonostante ciò dobbiamo dichiarare che il suicidio è riprovevole, questa condanna non vale dinanzi al tribunale della morale e degli uomini, ma soltanto dinanzi al Tribunale di Dio, creatore e signore della vita».
Il discorso vale per i credenti. L’uomo non deve mai togliersi la vita, anche se è un dovere sacrificarla per gli altri. Delinquenti e pazzi a parte, ci vuole rispetto per la scelta in coscienza del suicida, che può essere un eroe o un martire. Noi, più che condannarlo od assolverlo, rinnoviamo la voglia di vivere, per batterci per gli stessi ideali per i quali quel povero fratello affrontò liberamente la morte.
[Immagine: Guido Cagnacci, La morte di Cleopatra, 1659-1663, particolare.]