Leandro Rossi per “Utopia possibile”, numero 46, gennaio-febbraio 1997, pp. 22-23
Viene annunciato il processo di beatificazione di Fra Gerolomo Savonarola, nel cinquecentesimo anniversario della morte, sul rogo di piazza della Signoria a Firenze. Spero non si debba dire il manzoniano: “Chi era costui?”, anche se di cristiani bruciati vivi ce ne sono stati altri. Fra Gerolomo fu dominicano ed era nato a Ferrara il 21 settembre 1452. Grande predicatore del suo ordine, incaricato di frequentare i pulpiti delle più illustri città d’Italia: Firenze, Bologna, Pisa, Genova e ancora Firenze, ove fu torturato (dal “braccio secolare”!), impiccato e bruciato.
La chiarezza, la semplicità e l’efficacia furono le principali qualità non solo della sua predicazione, ma anche dei suoi scritti, come: i commenti alle scritture, il Triumphus Crucis e gli altri. Ma più che nelle doti oratorie o di scrittore, il successo è dovuto alla convinzione che mostrava in ciò che esprimeva, e nel coraggio di dire la verità in libertà (anche se non sempre forse in carità). Non era un forsennato, come si tentò di descriverlo, né un dissennato, ma un uomo pio e fervoroso, che predicava per la conversione dei laici semplici e dei potenti, non esclusi gli ecclesiastici. Nell’ingiusto processo che subì è notevole l’iniziativa dei cortigiani di curia, che stride con la titubanza del Papa Alessandro VI, che tuttavia fini per condannarlo; ma che presto se ne pentì, giustificandosi dicendo che era stato male informato. Giulio II dichiarò che lo avrebbe volentieri canonizzato (ma non poté perché erano ancora vivi i mandanti!). Il processo fu barbaro, benché fossimo ormai sulle soglie dell’Umanesimo. Non si poté leggere le accuse in presenza dell’accusato, perché si temeva che potesse convincere la folla difendendosi. Si applicò la tortura per estorcere le confessioni. Egli fece l’impossibile per resistere; ammise solo costretto e rinnegò appena non era in mano agli aguzzini. Lasciato tranquillo per alcuni giorni, poté comporre la mirabile meditazione sopra il Miserere nella quale confrontò con l’esempio di Pietro la sua tristezza per il riconoscimento estorto sotto i tormenti; poi cominciò quella sul salmo In te Domine speravi (E.C.). Ma riprese presto il processo con le torture.
La lezione dei fatti
La prima lezione dei fatti è quella del Vangelo. “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché edificate i sepolcri ai profeti, adornate le tombe dei giusti e dite: “Se fossimo esistiti ai giorni dei nostri padri, non saremmo stati loro complici nello spargere il sangue dei profeti, così testimoniate contro voi stessi, che siete figli di coloro che uccisero i profeti” (Mt.23, 29-31). Ogni commento è superfluo. Ma è “meglio tardi che mai”, nel riconoscere i propri torti.
Un secondo insegnamento riguarda la presenza dell’integrismo e del fanatismo religioso, oggi come ieri, altrove come a casa nostra: sotto ogni cielo, in ogni tempo. Quanto la fede è bella, altrettanto le contraffazioni e le imposizioni sono da respingere, perché non la potenziano, ma la distruggono. Esiste un medioevo passato, pensando al quale dobbiamo batterci il petto; ma esiste anche un medioevo… prossimo venturo, sempre in agguato: dobbiamo ricordarcelo. Resteremo umili di fronte agli algerini e ai talebani; ma più decisi nel contrastarli.
Una terza considerazione riguarda l’assurdità della tortura. Un torturatore doveva essere combattuto, in nome della coscienza umana, prima ancora che temuto per la paura o addirittura rispettato per l’istituzione cui apparteneva. Ci voleva l’urlo di don Milani: “L’obbedienza non è più una virtù!”. La tortura è intrusione indebita nel mondo intimo delle persone; ma il grottesco è che si credesse (o si fingeva di credere) che servisse a scoprire la verità estorta e proclamata solo per liberarsi del male. Si estorceva non la verità, bensì la bugia liberatoria. Con l’ulteriore assurdo che la “confessione” non serviva per perdonare, ma per condannare.
Un’ultima lezione viene dai cortigiani aguzzini, più papalini del Papa (anche di un Alessandro VI e di un Giulio II), che facevano carriera con questi mezzi efferati. Conculcavano la libertà e uccidevano la vita, in nome della difesa della verità, che presumevano di conoscere solo loro. Il pretesto della religione li rendeva forse più credibili? Non credo. Ma è certo il caso di tener vigile la coscienza del popolo di Dio, che sola può bloccare i soprusi del potere, specie quelli perpetrati in nome della fede.
[nella foto: la grata della cella di Girolamo Savonarola]