Leandro Rossi per “Utopia possibile”, numero 6, dicembre 1989, p. 21.
Candidato al Nobel per la Pace, gli fu preferito il segretario americano Kissinger, che poi si scoprì che aveva favorito il golpe contro Allende in Cile. Ma 40.000 giovani firmarono per dire che il vero profeta di pace era lui e gli consegnarono le firme a Berlino. Egli è la voce di chi non ha voce, in particolare dei poveri campesino del Nord-Est del Brasile. Qui a Olinda-Recife fu chiamato a fare il vescovo 12 giorni dopo il golpe militare del ’64. Entrò dicendo:
“Nessuno si scandalizzi, quando mi vedrà frequentare creature considerate indegne e peccatrici… o pericolose politicamente, di destra o di sinistra… nessuno pretenda incapsularmi in un gruppo, legarmi ad un partito, avendo per amici gli stessi amici e per nemici le stesse inimicizie. La mia porta e il mio cuore saranno aperti a tutti. Cristo è morto per tutti gli uomini, nessuno può essere escluso dal dialogo fraterno”.
Quattro anni dopo lasciava la casa episcopale per dimorare nell’umile sacrestia di una chiesa, come lasciò la croce d’oro per prenderne una di legno.
Personalmente ebbi la fortuna di vederlo due volte: al S. Agostino di Cremona, quando parlò a migliaia di giovani studenti della città; allo stadio di Bergamo, assieme a Madre Teresa, per la difesa della vita umana. A Cremona lo sentii per la prima volta e rimasi impressionato dalla forza profetica di questo uomo piccolissimo di statura. Riuscì ad entusiasmare non solo i giovani, dicendo la verità e battendosi per la giustizia. A noi europei raccontò il molteplice sfruttamento che operavamo nei confronti del suo terzo mondo: comperando le materie prime per cifre irrisorie; rivendendo i manufatti a prezzo esoso; producendo e smerciando armi ai popoli poveri bisognosi di pane e di attrezzature agricole. Tuonò nella denuncia; ma più forte ancora era la speranza. Quando disse tre volte: “Un popolo unito non sarà mai vinto”, stavamo per fargli eco proseguendo l’omonima canzone (ci ha bloccato solo la chiesa). Nel ritorno abbiamo offerto il passaggio a un giovane cremasco.Egli, scendendo alla rotonda di Ombriano, ci disse che mancava una parola: “Un popolo unito e armato non sarà mai vinto”. Rimanemmo sbigottiti, ma ci confermammo nella sua e nostra NON-VIOLENZA.
Allo stadio di Bergamo Suor Teresa di Calcutta parlò solo contro l’aborto e fu osannata al massimo dai presenti, ciellini e non. Camara, invece, oltre a difendere la vita prima della nascita, fece tutto il discorso contro le guerre e per la qualità della vita. Da oratore abile qual era di solito, strappava gli applausi per le cose giuste dette per convinzione, con tono entusiasmante. Mi meravigliò tanto sentire qui i giovani presenti applaudire soltanto quando si frecciava l’aborto e non quando si difendeva la vita in tutte le sue manifestazioni e articolazioni. Don Helder mi parve sconfortato per tanta chiusura e dovette sentirsi strumentalizzato dalla diocesi che l’aveva invitato.
Ricevette continuamente minacce di morte (quasi tutte le notti); fu imposto in patria il silenzio stampa sui suoi discorsi infuocati, fu ammazzato il suo segretario e il suo vicario, ecc. Ma non fu ammazzato lui solo per non farne un martire, come Gandhi e come King. Ebbene, la chiesa avrebbe dovuto esaltare questo suo figlio testimone coraggioso. Non pare che il Vaticano lo abbia fatto. Ne accettò subito le dimissioni a 75 anni, si guardò bene dal farlo Cardinale, lo ha quasi sempre ignorato; lo ha sostituito come segretario della Conferenza episcopale latino-americana con un conservatore. Ma il suo coraggio e la sua speranza rimasero invitti.
Potremmo, con Leonardo Boff (il teologo della teologia della liberazione) parlare di Camara uomo di Dio (mistico), poeta, profeta e pastore. Diremo soltanto con lui: “Non è la chiesa che lo onora, ma lui che onora la chiesa. Non sono le università che lo riveriscono con le lauree ad honorem, ma è lui che riverisce le università con il suo prestigioso nome”.
Ben diceva Don Camara: “Se do pane ai poveri, tutti mi chiamano santo. Se mostrò perché i poveri non hanno pane, mi chiamano comunista e sovversivo”. Ma questo è il destino di ogni profeta. Il “vescovo rosso” può ben chiamarsi anche così, dal colore del sangue dei poveri-cristi che difese con coraggio per tutta la sua vita.
[immagine: Carl Blechen, Sentiero nella foresta vicino a Spandau, 1835, particolare.]