Nini Bianchi Menichetti per “Utopia possibile”, numero 4 – 5, settembre – ottobre 1989, pp. 19-22.
Conoscevo il luogo dove stavo recandomi, quel pomeriggio lucente d’agosto, lo ricordavo pieno di luce, di alberi, con un maestoso palazzo che si affaccia sul celeste lago, punteggiato di nere isole. Eppure, man mano che mi avvicinavo, non mi cresceva la voglia di rivederlo, ma saliva, sempre più, l’angoscia che viene dall’andare ad un incontro con chi non conosci e dal quale non sei conosciuta. Era un problema serio e mi andavo chiedendo perché all’invito di P. avevo accettato, senza alcuna perplessità, senza fargli domande o farmene; al contrario, quasi con entusiasmo. Ed ora ero proprio pentita!
Ma, appena arrivata, un gruppo di ragazzi e di quasi uomini fatti mi viene incontro; dal gruppo si stacca uno di voi, una voce: “OH…, la preside!”. Senza sorpresa un abbraccio e subito l’abbandono ai comuni ricordi: la scuola, le cattiverie subite da lui e da me, il rifugio in presidenza, per non stare fuori in corridoio.
Infine, il mio perché? “perché G.?”. E la risposta breve: “ti ricordi di P? Era con lui che ho iniziato!” Mi assale, di petto, un senso di colpa G., la casualità delle circostanze, la sfortuna, la fragilità del suo carattere, e i tanti errori e gli errori di tanti.
Non pesavo gli errori degli altri, mai miei errori. Infatti, per non farmi divorare dalle fauci del lupo, vestito da agnello, avevo, sia pure dopo molti interventi e tentativi, lasciato perdere. Ma, avevo recepito un segnale che G. mi aveva capita: la mia autoradio l’avevo trovata ancora al suo posto!
L’incontro con tutti voi incalzava nei suoi tempi tecnici e, dopo pochi minuti, eccomi sul vasto prato verde, davanti a voi, che eravate più di cinquanta. Eravate, e siete belli, sani, un po’ pensosi, tesi con lo sguardo verso di me, che stavo per parlarvi, e che, anche per le emozioni vissute fino a quel momento, ero disorientata, con dentro un po’ di paura.
Vi ho proposto di parlare per primi, non tanto per un principio democratico e per non imporvi un discorso, che provenisse da me, ma proprio perché non sapevo come e da dove cominciare.
Ho cercato tra voi G. e mi sono improvvisamente rinfrancata per aver captato dalle sue parole la chiave di lettura della situazione di noi tutti. Ognuno di voi ha una storia diversa, con il comune denominatore della SOFFERENZA, la sofferenza atroce, abissale, che sanno vivere gli animi sensibili – i poeti e gli eroi – quella sofferenza, per cui preghi che ti sia allontanata: nessuno ti ascolta e finisci per morirne.
Mi è scattata, allora, una volontà grande e travolgente – quella che hanno le mamme, quando forti e feroci come la tigre della giungla, vogliono salvare i figli – la voglia di salvarvi, dimenticando che non abbiamo un salvatore, ma che ci salviamo da noi stessi, soltanto. Ma, almeno, la volontà di insegnarvi come non perdervi, ripercorrendo gli itinerari della mia “lunga marcia”, durante la quale ho cercato di non farmi sommergere dalle cattiverie, dai tradimenti, dagli abbandoni, e dalle disgrazie subite.
Valutavo tutto il bagaglio delle mie sofferenze nulla a confronto delle vostre sofferenze, che vi avevano spinti ad intraprendere un viaggio che non assicura il biglietto di ritorno.
Eppure, eccovi qui con me, già sulla via del ritorno: né malati, né colpevoli, ma soltanto privi e deprivati di quel tanto di aiuto di giustizia e di solidarietà che una società, che proclama di essere democratica, dovrebbe assicurare a tutti, in qualunque situazione si trovi, qualunque siano le circostanze, apprestando mezzi e strumenti per offrire a ciascuno pari opportunità.
Non siamo circondati da una società a questo livello morale, non è questa la società della quale facciamo parte, ma dobbiamo sentire e vivere l’impegno di costruire una società nuova, ciascuno con il contributo del proprio granello. E, nell’impegno che dobbiamo prendere, per vincere su noi stessi, e per non farci vincere: “PENSATE AL PROBLEMA DEGLI ALTRI!”
Mi avete fatto capire che non si può pensare ai problemi degli altri, quando siamo affogati dai nostri stessi problemi. Allora vi ho messo davanti i popoli senza voce e Senza diritto del III e del IV mondo, assoggettati e affamati, ancora oggi, da chi è più forte, più ricco e accresce i profitti suoi e dei mercanti di armi alimentando focolai di guerra come ce ne sono in molte regioni.
C’è, sempre, uno più disperato di noi, più emarginato di noi, più povero di noi: cercatelo, e nel lenire la sua disperazione, nel sollecitarlo a prendere in mano la. sua vita, anche con la ribellione, nel dividere con lui il pane, ci sentiremo e saremo rinvigoriti nella speranza, liberi padroni della nostra fortuna, con il Cuore pieno di quello che abbiamo donato!
Vi ho raccontato che la mia vita fino ad oggi, e per il resto che vivrò, è stata guidata da questa morale. È stato così nei quaranta anni di scuola durante i quali la fede che ho nell’uomo mi ha portato ad occuparmi, in prima linea, degli handicappati, dei ragazzi provenienti da situazioni familiari compromesse, dei ragazzi divenuti violenti perché vittime dell’ingiustizia sociale. Che bisogno ha della scuola il figlio della professoressa e del dottore?
Bisogna dare tutto, nell’arco dell’obbligo, al figlio dell’etilista, al figlio del disoccupato, al figlio del carcerato! Non sotto forma di pura assistenza o della pietà, che ci mette a posto con la coscienza, ma per cercare di pareggiare i conti nei casi particolari, e per costruire, nell’ambito generale, una società diversa e nuova.
Poi vi ho detto della mia attività di oggi: mi occupo dei problemi degli immigrati, messi in fuga dai loro paesi – Africa, America, Asia – impoveriti dal lungo dominio coloniale, e approdati nel nostro paese in cerca di lavoro o per prepararsi, studiando a migliorare le condizioni delle terre da cui provengono, e dove i loro fratelli mangiano poco e hanno poca scuola e scarsa assistenza sanitaria.
Talora sono qui in Italia, o in altri paesi di immigrazione, perché sono perseguitati da regimi totalitario borghesi, e organizzano, in clandestinità, i movimenti di liberazione dalla dittatura o da un regime oligarchico. Spesso, per aver osato ribellarsi, sono stati espulsi dal loro paese, e comunque nell’impossibilità di ritornarvi, se non a rischio della loro vita. Ai movimenti di liberazione diamo aiuto morale e politico e materiale, informando la gente intorno alle ragioni della loro rivolta, sensibilizziamo l’opinione pubblica perché comprenda che la lotta che conducono i movimenti di liberazione, che sono sempre minoranza, è la stessa che il popolo italiano ha condotto, nel risorgimento, durante il fascismo e nella resistenza, per realizzare una repubblica democratica, libera e indipendente.
Vi ho parlato della cooperazione allo sviluppo, di un esercito, numericamente, di giovani, di ragazzi, di professionisti, di specialisti in vari settori, che partecipano, volontariamente, ai progetti di COOPERAZIONE, in paesi lontani, dove la tecnologia arretrata frena il miglioramento del livello di vita. Ho visto un lampo di luce attraversare il vostro sguardo davanti alla possibilità di fare qualche cosa. Infatti anche questa del volontariato nella cooperazione allo sviluppo – i cooperanti sono pagati dal Ministero degli Esteri – è un’occasione di occupazione, che realizza nel contempo la nostra aspirazione a condividere il problema degli altri.
Partecipare a codesti progetti, tuttavia, non è un divertimento, perché i cooperanti devono possedere un’abilità specifica ed accertata in un determinato settore lavorativo, e prima di partire debbono aver appreso la lingua del paese, a cui saranno destinati, la storia e la cultura, a contatto delle quali essi verranno a trovarsi. Il che comporta un corso di preparazione di almeno sei mesi.
Vi ho parlato delle mie personali esperienze di cooperante in Nicaragua e in Costa d’Avorio, ve le ricordate?
Poi il discorso dai popoli è passato agli individui, alle persone : al senegalese che è espulso dall’Italia con il foglio di via; allo studente camerunese coinvolto da italiani in una storia di droga perché coprisse i loro illeciti traffici; al palestinese che bussa alla porta, alle dieci di sera, perché non mangia da due giorni, e non sa dove andare a dormire; alla studentessa del Gabon che per mantenersi agli studi fa la colf per 300.000 lire al mese, per dieci ore al giorno.
Non ho continuato nell’elenco, consigliata dallo sguardo di alcuni di voi, che aveva da raccontare storie analoghe, forse più drammatiche ancora.
Ho sbagliato a mettervi a parte della situazione in cui vivono i nostri fratelli africani, arabi, sudamericani?
Ad un certo punto, Leandro ci ha invitato a concludere, non senza aver adempiuto il rituale della preparazione delle domande da pormi. Siete stati bravissimi e in poco tempo avete preparato domande precise ed interessanti: non so se sono stata adeguata alle vostre aspettative, nelle risposte.
Ma che non vi avevo deluso ne sono stata certa, quando, dopo la cena, mi avete interpellata su questioni scottanti, fondamentali, di quelle che, generalmente, non vogliamo mettere in piazza, in pubblico. È stato un segno che avevo conquistato la vostra fiducia.
Infine, grazie, grazie, a quei due ragazzi – come vorrei ricordare i loro nomi! – che vedendomi appartata e presa da una forte emozione di sconforto, misi sono avvicinati e mi hanno detto che se non si arriva sempre a tiro – era di G. che si parlava – non dovevo sentirmi responsabile!
Quale saggezza, ragazzi cari, e quante altre cose mi dovrete insegnare, se, come spero, faremo insieme un programma che duri e vi interessi.
Nini, sezione di Perugia della Lega nazionale per i Diritti e la liberazione dei Popoli.
[immagine: Vilhelm Hammershøi, Cortile, 1899, particolare.]