Leandro Rossi per l’allegato a “Utopia possibile”, numero 0, settembre 1988.
Ci sia lecito fare alcune riflessioni, in occasione dell’apertura di questo centro del «dopo» comunità.
- È un (piccolo) grosso centro di reinserimento, che avviene dopo altre piccole realizzazioni: dunque il reinserimento è possibile, malgrado i pregiudizi continui e costanti e i facili uccelli di malaugurio.
- È voluto e finanziato solo da privati, spesso anche operatori del settore: dunque il volontariato è una realtà, si veste anche dell’abito cooperativistico e viene penalizzato dallo stato (circa 150 milioni spesi qui in IVA e TASSE!). Di fronte al miracolo di questo privato sociale, lo stato risponde dicendo “dà un po’ di soldi anche a me che faccio niente”.
- Sarà un centro non assistito, ma autosufficiente. L’ente pubblico non ha messo niente finora nelle strutture e nelle attrezzature, ma metterà niente neanche nel funzionamento. I giovani qui vivranno solo del loro lavoro e del nostro aiuto a gestirsi (perché sono queste le cose che a loro mancano per il reinserimento: lavoro, abitazione e aiuto ad un reinserimento graduale).
- Si tratta di una cooperativa: qui i giovani, dunque, non sono dipendenti ma padroni, non alienati ma soci, non esecutori ma protagonisti, non passivi ma creativi. E di una cooperativa – ad un tempo – di lavoro e di solidarietà sociale. Di lavoro, come tutte, ma di solidarietà, perché prenderà anche gente che altri non vogliono prendere, e se ne farà carico anche per i tempi scarsi di lavoro.
- V° – Chiede solo di essere in grado di poter agire: quindi di avere lavoro. Lo domanda a tutti: privati e ente pubblico; ma lo esige soprattutto dal pubblico, cui sottrae persone da assistere e offre individui reinseriti. Ai Comuni, alla USSL chiediamo convenzioni e appalti per traslochi, pulizie, tinteggiature, verde pubblico, ecc. Trattateci almeno come qualunque ditta di appalti. Se potete privilegiateci, nel vostro e nel nostro interesse.
Il capannone di Crespiatica e la Comunità “Nuova Vita” assurge per noi a simbolo. Non è solo lotta generica alla disoccupazione giovanile, ma a quella sul fronte più duro, quello dell’emarginazione preconcetta e assurda. Si vuol accendere un lume, invece che imprecare contro l’oscurità: si vuol offrire un esempio di quanto si può fare per spingere anche altri all’azione; si vuole diventare protagonisti (in modo cooperativistico) per portare altri a diventare protagonisti di sé stessi e del mondo.
Abbiamo fatto la comunità dei mattoni ora facciamo la comunità delle persone.
Abbiamo fatto le strutture di lavoro ora mettiamo lavoro nelle nostre strutture.
Il “privato sociale” ha fatto la sua parte.
Ora il “pubblico” faccia la propria.