Intervsita di Andrea Maietti a don Leandro Rossi, Cadilana, gennaio 1981, poi in “Ritorno a Lodi. Diario minimo di una provincia antica”, Lodigraf, 1981.
Leandro Rossi da Guardamiglio, 47 anni, prete della più tradizionale vocazione (a 11 anni il padre contadino lo portò fino alla porta del seminario di Lodi con la «baréta», come il ragazzino del film di Olmi) da vent’anni collaboratore, come teologo morale, di alcune delle più importanti riviste cattoliche italiane, autore di libri in materia tradotti anche all’estero (ne cito due tra i tanti: Morale sessuale in evoluzione, Gribaudi 1967, e Il piacere proibito, Marietti 1978); ha fondato tre anni fa, a Cadilana, una comunità per il recupero delle vittime della droga. Quest’anno la città di Lodi gli ha assegnato il premio alla bontà.
D. – Sei davvero un prete buono?
R. – L’unico che ha il diritto di premiare o castigare è Dio, questo è assodato per ogni credente. Arrogarsi questo diritto è sempre un abuso, tanto più se a farlo è l’alta società, chi comanda. Avrei anche voluto contestarlo questo premio, poi – ammetto candidamente – ho pensato che il mezzo milione del premio serviva alla Comunità. Ho anche pensato che se c’era uno degno di essere premiato era Oliviero Ferrari, il prete-operaio. Io in fondo ho fatto dopo quel che da tempo faceva lui, in tutto silenzio: ospitare gente emarginata. Tra l’altro io posso godere di condizioni molto più favorevoli: una casa più grande, maggior tempo libero, ecc.
D. – Perché sei «cattivo» con la gerarchia della Chiesa?
R. – Non mi pare; credo di avere la libertà del «figlio di Dio», che può e deve dire certe cose. Non mi sento un profeta. Dio dice: «Vi perseguiteranno» (magari credendo di far piacere a Dio):
io ho addirittura riconoscimenti cittadini! Questo mi fa dubitare di essere sulla strada giusta.
D. – Ti è mai stata fatta l’obiezione: «hai portato la mela marcia nel cesto di quelle sane»?
R. – Tre anni fa è giunto qui il primo tossicomane: dopo un paio di mesi c’è stata un’assemblea nel salone parrocchiale con gli abitanti di Cadilana. A un certo punto un giovane contadino di parola pronta ha difeso così appassionatamente il tossicomane (che, tra l’altro, non aveva dato fastidio a nessuno) contro tutti i genitori schierati, che a poco a poco, come dice il Vangelo, «tutti se ne sono andati senza parola» a cominciare dai più vecchi. Sono rimasti solo i giovani.
D. – E ti hanno mai accusato di improvvisazione, di superficialità?
R. – Mi è stato chiesto spesso se avessi una équipe medica specialistica. L’équipe non c’è, non perché non la voglia, ma perché non la posso pagare. Mi sto battendo da sempre perché i miei ragazzi possano godere della «mutua». C’è il C.S.Z., per esempio, che è pagato anche per il problema dei tossicomani, ma per ora non ha fatto nulla. Bisogna anche diffidare di pensare che il problema della droga sia soprattutto un problema medico, è invece un grosso problema umano: allora bisogna risolverlo soprattutto con il risvolto umano.
È comunque vero che sono un ingenuo. Lo sono stato, forse, anche in questa circostanza. Ho visto però che c’era una componente di ingenuità anche in papa Giovanni: da allora mi sono sentito più tranquillo.
E poi bisogna anche rischiare, il Vangelo è anche follia.
D. – Ti trovi mai di fronte casi in cui ti pare che il recupero sia impossibile?
R. – Non è questione di casi, è questione di momenti. Ci sono momenti in cui ogni persona, a qualunque stadio, può ritornare. Ci sono altri momenti in cui qualunque aiuto esterno, di qualunque tipo, è inutile. Noi abbiamo continuamente richieste per ospitare gente: siamo costretti a dire di no. Attualmente siamo in tredici e quando ci fosse un posto libero, l’importante sarebbe di cogliere il ragazzo nel momento giusto.
D. – Se la droga è soprattutto un problema umano, perché i più vicini alle vittime della droga, i genitori, non riescono ad operare il recupero?
R. – I genitori possono avere colpe e possono non averne: tanti genitori sono brava gente; ma il rapporto genitori-figli, in questi casi, sono falsati. I figli, abbiano anche trent’anni, credono di dovere solo pretendere e mai dare. Poi, ciò che i tossicomani chiedono per primo è «Tirateci fuori (anche geograficamente) dall’ambiente che ci ha visti vittime». Per cui, per esempio, è assurdo che la sperimentazione per il recupero avviene soltanto nelle grandi città come Milano, nell’ambiente da cui i tossicomani vogliono fuggire. A noi non danno niente e per la sperimentazione si buttano centinaia e centinaia di milioni.
D. – Nella tua esperienza di recupero, pensi che si debba dire sempre «sì» o anche dei «no» ai tuoi ragazzi?
R. – Ho imparato purtroppo a dire no, anche se mi costa. C’è un «no» d’amore che molto spesso non hanno detto i genitori.
D. – Cosa pensi della droga di stato?
R. – È un problema grosso. Penso che ci sia stata anche della buona fede in chi ci ha pensato. Solitamente io non mi pronuncio, però l’assurdo è questo: al giovane che vuole continuare a drogarsi si dà il metadone (e si spendono cifre enormi). Abbiamo fatto il calcolo che per l’aumento del personale necessario per questo servizio, lo stato spende nel nostro ospedale di Lodi circa cento milioni l’anno; invece per i giovani che cercano di uscirne non si fa nulla. Il tossicomane ha due volontà: quella di «farsi» quando ha bisogno e quella di uscirne quando ragiona. È questa seconda volontà che va aiutata.
D. – Chi ti dà una mano nella comunità?
R. – Ora siamo, convenzionati con il Ministero della Difesa per avere degli obiettori di coscienza. Ci sono dei volontari esterni. Chi fa moltissimo è il dott. Carlo Cavalli, insegnante all’ITIS di San Donato. Il dott. Cavalli ci ha dato una grossa mano nel mettere in piedi il nostro laboratorio per la produzione di borse sportive e altri prodotti in nylon e altro materiale. Ora stiamo facendo duemila grembiuli per una ditta, la SIVAM, a prezzi veramente convenienti. Vorremmo tanto arrivare direttamente all’acquirente, saltando i commercianti all’ingrosso e al minuto. C’è poi la nostra Angiolina, che viene da Guardamiglio (dopo aver lavorato sei giorni alla settimana come domestica) ogni domenica, durante le ferie, tutte le volte che ha tempo libero: a lei dovrebbero dare il premio alla bontà.
D. – Cosa chiedi ai lodigiani per i tuoi ragazzi?
R. – Alla gente comune di trattarli come ragazzi normali, credendo nel loro recupero, perché veramente possono uscirne. Non emarginate i tossicomani: è gente che ha fatto e sta facendo sforzi enormi per vincersi. Agli amministra tori vorrei dire: dateci oppure non dateci un minimo di strutture per aiutare questi giovani: però non prendeteci più in giro.
D. – I tuoi erano contadini: ti senti dentro quelle radici?
R. – Come no? Anzi, io ho un grande rammarico: allora chi era destinato a fare il prete, non doveva sporcarsi le mani con la terra. Avessi invece imparato anch’io a lavorare la terra! Avrei imparato tante cose che mi sarebbero utili oggi con i miei ragazzi. Ho sperimentato quest’anno questa necessità: i libri non mi servivano; mi servivano invece quelle nozioni di agricoltura che ho dovuto faticosa mente ripescare nell’infanzia.
D. – Non pensi di aver tradito la tua vocazione di scrittore?
R. – Talvolta ho nostalgia dei libri, anche perché i libri ci vogliono, almeno per sapere che la vita, la realtà viene prima.
D. – Se Cristo si reincarnasse oggi, dove sarebbe?
R. – Ricordo quella canzone di qualche anno fa: «Gesù, se un giorno tu ritorni, vieni a nascere in un’officina»; ebbene quest’anno direi: «Gesù, vieni a nascere in una tendopoli». Ci siamo stati per otto giorni, noi della comunità, tra i terremotati a dare una mano. Devo dire che i miei ragazzi sono stati bravissimi. Ed una scoperta che abbiamo fatto tutti è stata questa: «Ci voleva un terremoto per assaporare la bellezza della solidarietà, il sentirsi fratelli, senza le distinzioni: questo è tuo, questo è mio».
D. – Tu hai sempre esaltato la virtù della tolleranza. Sei mai stato intollerante a rovescio?
R. Certo, lo sono stato, e penso che sia comprensibile. È proprio il messaggio di tolleranza che fa diventare più duri di fronte agli intolleranti. Mi sono incontrato proprio questa settimana con Sirio Politi, il primo prete operaio d’Italia. Lui ha una rivista dal titolo Lotta come amore. Talvolta bisogna farsi duri per portare il messaggio d’amore, quando dall’altra parte c’è intolleranza.
D. – Fede, Speranza, Carità: quale di queste virtù ti è più ardua?
R. – Tutte tre sono ovviamente fondamentali, però io credo che la carità è prevalente, non solo teologicamente, ma anche nell’animo moderno. La carità intesa come apertura agli altri, agli umili, ai poveri. Per me più difficile la speranza: in alcuni momenti, vedo nero anch’io e quasi mi ordino di tirar fuori i «segni dei tempi» quando non ci sono. Non mi viene spontanea la speranza.
D. – Il figlio «prodigo» e il fratello: non pensi che si debba talvolta difendere anche questo «fratello» che è rimasto a lavorare nella casa del padre?
R. – Il fratello del «prodigo» non solo non lo difendo, ma non è difendibile. È difendibile chi, come Santa Teresa del Bambin Gesù, dice: «Io sono peggio della Maddalena. Potevo fare peccati ben più gravi; il Signore mi ha voluto così bene che me ne ha preservato». Non è, invece, difendibile l’atteggiamento di superiorità nei confronti di chi sbaglia. Certo devo sentire fratelli tutti, ma non solo devo seguire come prete prima «la pecorella smarrita»; talvolta sono io che mi sento smarrito di fronte alla «pecorella» o al «prodigo».
D. – Qual è stato il tuo pensiero di Natale?
R. – Un pensiero di Mazzolari che abbiamo scelto come testo per gli auguri di queste ultime festività: «Un bambino che non ha casa né culla né fasce, ci costringe a pensare che i poveri sono una nostra colpa e che non è un bene e che non giova a nessuno che il mondo continui a camminare così, se pure è un camminare questo mettere insieme d’ingiustizie e di dolori ad ogni passo».
Aggiungerò che uno dei ragazzi doveva far pervenire il biglietto d’auguri anche al vicario del vescovo. Purtroppo se ne è dimenticato e mi dispiace.