Leandro Rossi per “Rocca – periodico quindicinale della Pro Civitate Christiana Assisi”, numero 18, 15 settembre 1998, pp. 48-49.
Per poterci intendere meglio, delimitiamo il campo. Qui non parliamo di coppie omosessuali (per le quali occorre un discorso a parte), né di fecondazione eterologa. Parliamo dei casi normali di coppie eterosessuali che vivono «more uxorio», senza matrimonio. C’è chi per loro vuole il registro e i riconoscimenti dei diritti civili (per la coppia e per i figli). E c’è chi non li vuole, perché cattolico. Ci sono infine anche coloro che fanno la spola tra le due posizioni non per scelta di coscienza, ma per fini politici. Io come teologo cattolico preferirei spiegare perché il matrimonio è a difesa dell’amore; o perché il sacramento offre la grazia, un possente aiuto divino per la fragile coppia umana. Mi ritrovo invece a dover fare il discorso opposto a difesa della libertà e della coscienza, perché non si dilata la fede con le costrizioni.
I motivi per le convivenze odierne possono essere molti: la convinzione che l’amore interessi solo la coppia e non anche la società civile o ecclesiastica; la diffidenza verso le strutture giuridiche; il timore che l’istituzionalizzazione possa diventare la tomba dell’amore; il mito della libertà, intesa come assenza assoluta di vincoli; l’esaltazione della spontaneità dell’amore; l’opposizione ai formalismi legali e alle ipocrisie che il diritto potrebbe sancire; una certa adolescenziale ed eccessiva fiducia in se stessi e nella propria capacità di mantenere da soli gli obblighi assunti. Un dato che sorprende è che i «bravi cattolici», che contestano il libero amore, si trovano con pochi motivi da giocare, per cui preferiscono ricorrere alla ignoranza e all’intolleranza. Non è detto poi che quanti contestano il matrimonio siano i peggiori, né che quanti lo accolgono supinamente siano i migliori. Si può contestare infatti il matrimonio istituzionale in nome dei valori della libertà, dell’amore, dell’autenticità in cui si crede; come si può accettarlo in nome di una mentalità fatalista che lo fa considerare un male necessario per la sistemazione propria e dei figli. Lo strano è che ieri contestavamo il matrimonio civile; oggi lo riteniamo sufficiente al riconoscimento della famiglia, ma la contestazione è rimasta per le famiglie di fatto che richiedono un minimo di regolamentazione.
Famiglia Bibbia e Costituzione
Le coppie conviventi sarebbero una «ferita» alla famiglia e una provocatoria sfida alle istituzioni «che difendono l’autenticità e la genuinità del modello di famiglia biblico-cristiano, garantito dalle carte costituzionali degli stati democratici» (Oss. Rom. 11/7/98). Per rispondere ci sarebbe da scrivere un trattato. Anzitutto nel Vangelo la famiglia è certamente esaltata, ma anche relativizzata, come è giusto, perché tutto è in funzione del Regno di giustizia, di amore e di pace. Il prossimo per il buon Samaritano (Lc 10,25) non è il consanguineo o il familiare; può essere il più estraneo e diverso, purché si trovi nel bisogno. «Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me». «Chi fa la volontà del padre mio è per me fratello, sorella e madre» (Mt 10,34). «Vengo a separare il figlio dal padre e la figlia dalla madre». La famiglia è un grande valore, ma va evitata la retorica vittimistica. La Bibbia ha legittimato anche la famiglia poligamica, come quella non indissolubile per «durezza di cuore», non negando le realtà spiacevoli e accettando la riduzione del danno.
Nella storia la famiglia è passata dall’essere patriarcale a diventare piccolissima, nucleare. Altri cambiamenti verranno ancora. Ad esempio, oggi De Rita dice la famiglia è una struttura (non sovrastruttura). Per difendersi deve cambiare se stessa. La famiglia moderna è composta da tre elementi: la struttura economica, il luogo della soggettività e del rispetto dell’altro. La famiglia cristiana sarà tale non per connotati esteriori, ma perché in essa deve circolare l’amore e la comunione.
Quanto alla Costituzione, è comodo considerarla garante della famiglia in tutti gli stati democratici. Basterebbe rispondere che le famiglie di fatto sono riconosciute in tutti gli stati d’Europa, tranne che da noi. A mio avviso la «Carta» italiana e compatibile con il riconoscimento delle famiglie di fatto; ma se non lo fosse avrebbe torto e andrebbe modificata. Ciascuno dovrebbe mettersi onestamente nei panni dell’altro. Il laico, ad es., a proposito della scuola dovrebbe dire: le scuole private possono esistere «senza oneri per lo stato»? Bene. Guardiamo quanti soldi ci fanno risparmiare per gli alunni che vanno a scuola da noi; e potremo aiutarle a stare in piedi «senza onere (supplementare) per lo stato». Così i cattolici dovrebbero dire: non possiamo imporre il nostro concetto di famiglia allo stato, per cui riconosciamo volentieri le famiglie di fatto, senza discriminare coppie e figli.
Evangelizzazione a rovescio
Guardiamoci poi dal dire: la famiglia normale è brava e quella diversa è cattiva. Quando don Zeno Saltini ha costituito famiglie «aperte», per farsi carico dei bimbi degli altri, fu diffidato e ha dovuto rinunciare alla Messa. Venne poi Papa Giovanni a consentirgli di dire la sua «seconda prima Messa». Le case famiglia cercano di porre rimedio alle rottamazioni delle famiglie tradizionali. C’è chi ha scritto: «Se proprio volete fare del bene: occupatevi degli immigrati». Bello! Ma perché non anche degli handicappati rifiutati, dei carcerati, dei senza parentela, dei gay senza speranza, dei minori violentati da padri padroni di famiglia regolare, o di mogli stuprate dal «debito coniugale»?
Se vogliamo ridurre le convivenze, perché non facciamo un discorso convinto e convincente, invece che appoggiarci sulla repressione delle leggi statali. È una evangelizzazione a rovescio. È un tradimento del Vangelo, che è annuncio di gioia. «Guai a me se non evangelizzassi»! (1Cor 9,16). E perché lasciare queste coppie in preda al mercato, invece che offrire loro diritti e doveri da rispettare reciprocamente e davanti ai figli.
E se domani i musulmani fossero maggioranza?
Ma poi c’è la libertà religiosa del Vat. II con il rispetto delle coscienze e delle culture. o vogliamo restare fermi al Sillabo di Pio IX? Il nostro sarebbe un neo-temporalismo, pur senza lo stato pontificio. E il Concilio non ha forse proclamato la laicità dello Stato e l’autonomia delle realtà terrene? (G.S. 36). Mi si ricorderà il rapporto tra politica e chiesa. Questa può e deve intervenire per difendere i valori. Giusto. Ma non deve diventare come un partito, che impone le sue decisioni agli iscritti, soprattutto dove c’è di mezzo la libertà di coscienza e non le scelte ideologiche prefabbricate. Non si può chiedere allo stato di sancire le scelte della maggioranza cattolica (ma c’è ancora?) di oggi; a meno di prepararci ad avere domani le imposizioni dei musulmani divenuti maggioranza. Per non sconfinare a me è servito molto un intervento dei vescovi svizzeri di un po’ di anni fa, in occasione di un referendum sugli immigrati. Dissero: ci sono magari venti soluzioni, è affare vostro di politici. Noi Vescovi vi diciamo che sarebbe contro la morale rimandarli così, senza niente, ai loro paesi ove non c’è lavoro, dopo averli sfruttati per diversi anni. Qui si difendono i valori, ma non ci si intromette nella politica! Noi oggi non difendiamo neppure il Vangelo, ma una semplice tradizione degli uomini.
[Immagine: Wilhelm Bendz, La famiglia Waagepetersen, 1830, particolare.]